Ho la fortuna di annoverare tra le mie amicizie Maurizio Spatola, il fratello di Adriano. Oggi mi fermo qui lasciando la parola a Maurizio, per ulteriori informazioni sulla vita e le opere di Adriano Spatola, oltre ai consueti canali web, vi consiglio caldamente di accedere a https://archiviomauriziospatola.wordpress.com/
In occasione del ventinovesimo anniversario della scomparsa, a soli 47 anni, del Poeta Totale Adriano Spatola, mio fratello maggiore, che ricorre il 23 novembre, “Carteggi Letterari” me ne ha chiesto un ricordo. Ho pensato che quanto dissi, nel settembre 2008, nel corso del Convegno sui “Fantasmi emiliani” (Corrado Costa, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli) organizzato a Bazzano (Parma) a cura di Daniela Rossi, fosse particolarmente adatto. L’obiettivo di quell’incontro era quello di ricordare i fantastici Anni Settanta in cui, proprio in quel territorio, nel mitico Mulino, Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Corrado Costa ed altri diedero vita a quella che fu definita “La Repubblica dei Poeti”. In quell’intervento, infatti, ripercorrevo a braccio l’avventura letteraria di mio fratello dipanatasi sin dall’adolescenza lungo la via Emilia, fra Imola e Parma: antica via di comunicazione che è divenuta, in qualche modo, il filo conduttore della vita di Adriano Spatola. La trascrizione di quanto dissi allora è apparsa nel 2009 negli atti di quel Convegno pubblicati dall’editore Campanotto di Pasian di Prato (Udine).
Maurizio Spatola
Il filo rosso che lega la vita di questi “Fantasmi emiliani”, si snoda lungo la via Emilia, allora io vorrei ripercorrere questa storia partendo da molto lontano, dal 1955 o ‘56, quando si svolge la prima scena di questo racconto. Siamo sempre lungo la via Emilia ma prima di Bologna, a Imola, dove Adriano, studente ginnasiale, con un paio di compagni redigeva già allora, usando un ciclostile, un giornalino: un giornalino scolastico le cui matrici venivano fatte in casa di nostro padre, brigadiere della Guardia di Finanza, quindi perplesso di fronte a questa iniziativa un tantino “irregolare”. Sui fogli ciclostilati del giornalino Adriano e i suoi compagni riprodussero anche poesie di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, Laforgue e Lautrèamont. Tra questi versi c’erano probabilmente anche quelli, all’epoca certamente ritenuti “scabrosi”, che alludevano al legame particolare che aveva unito Verlaine e Rimbaud. Incaricato di vigilare sulla correttezza del giornalino scolastico era l’insegnante di greco, un professore dal nome che era tutto un programma, Proto, che in seguito sia mio fratello che io ci saremmo ritrovati come insegnante al liceo Galvani di Bologna: il prof. Proto, bravissimo docente ma un po’ distratto, non si era accorto di niente ma il preside del liceo di Imola, avvertito dai genitori di alcuni studenti e ancora più reazionario di loro, sequestrò il ciclostilato e sospese per un giorno i tre studenti rei di aver pubblicato e diffuso nella scuola quel materiale ritenuto indecoroso. Fu la prima occasione in cui Adriano si rese conto che la poesia può far male.
La seconda scena si svolge invece a Bologna. Siamo in via Castiglione, una delle splendide vie medioevali che conducono dalla circonvallazione alle Due Torri e dove si trova tuttora il Liceo Classico Galvani in cui per tre anni studiò Adriano (e in seguito anch’io). Imboccando la via dalla Porta, subito a sinistra c’è via dell’Oro, dove noi andammo ad abitare dopo che nostro padre da Imola era stato trasferito a Bologna. Dal nostro appartamento al quinto piano di un vecchio stabile, si vedevano il tetto di una chiesa e altri scorci affascinanti, che Adriano dipinse a tempera su tela: quadretti dove la prospettiva assumeva tratti cubisti. Da quella casa sia io che Adriano andavano a scuola a piedi, lui al liceo io alle medie, in piazza San Domenico. Proseguendo oltre il liceo, a sinistra si apre una via stretta, via dei Poeti: qui esisteva all’ora una vecchia osteria, gestita dal signor Paolo, uno dei primissimi tesserati bolognesi del Pci ed ex partigiano. Il locale esisteva già ai tempi di Carducci, all’interno era conservato un suo busto con una scritta che recitava, più o meno, “se tutto il vino che ho bevuto, dovesse tornare alla terra, l’Emilia sarebbe tutta una vigna”. Qui si ritrovavano, attorno a un tavolo rettangolare di legno, studenti liceali e universitari a discutere, sotto lo sguardo di Carducci, di poesia e di arte e letteratura. Lì nacque il progetto della rivista “Bab Ilu”. Qui s’incontravano Adriano, Giorgio Celli, Patrizia Vicinelli, ed altri che non sono diventati famosi ma hanno fortemente contribuito alla realizzazione di quel progetto. Erano gli “operai” della rivista, Vladimiro Bini, detto Miro, Carlo Negri detto Carletto, per la corporatura tarchiata e la bassa statura, Carlo Marcello Conti (che in seguito fonderà a Udine la Casa editrice Campanotto), Aurelio Ceccarelli, Sergio Molinari, Vic De Tassis, Claudio Altarocca, Gianni Celati, Alberto Tomiolo e il pittore Beppe Landini. Carletto era molto simpatico a nostra madre, Dina, perché mostrava di apprezzare molto la sua cucina: infatti tutte queste persone frequentavano la nostra abitazione, prima quella di via dell’Oro, poi quella di via Andrea Costa 133, che divenne la sede di “Bab Ilu”. Carlo Negri che naturalmente scriveva poesie, fece conoscere ad Adriano un poeta americano che aveva vissuto nella Chicago nei primi decenni del Novecento Carl Sandburg, che proveniva dal mondo contadino e dalle esperienze operaie, che entrambi trovarono molto stimolante. Sotto la direzione di Adriano uscirono nel 1962 due numeri della rivista “Bab Ilu”. L’impaginazione e la rilegatura erano spartane, ma il contenuto molto attento alla volontà di rinnovamento del linguaggio poetico, irriverente anche nei confronti di quei “novissimi”, la cui antologia pubblicata l’anno prima aveva provocato una sorta di terremoto nell’ambiente culturale italiano. Alla presentazione della rivista (cui erano presenti anche i nostri genitori, un po’ spaesati) intervennero diversi esponenti della cultura bolognese, fra i quali Roberto Roversi (che dirigeva la rivista “Rendiconti” ), il futuro drammaturgo e docente Luigi Gozzi e soprattutto il professore Luciano Anceschi, fondatore de “il verri”, che era in fondo il patrocinatore, nemmeno tanto occulto, dell’iniziativa.
Da Bologna la scena si sposta a Reggio Emilia, e passa per Modena dove Adriano conoscerà Claudio Parmiggiani e Giuliano della Casa, due pittori che lo affiancheranno in molte iniziative. A Modena incontra anche il pittore-fotografo Franco Vaccari e Carlo Alberto Sitta, che poi collaborerà alla rivista “Tam Tam”, e sarà uno dei più attivi nella prima fase della rivista stessa. A Reggio Emilia, subito dopo i primi due convegni del Gruppo 63, nasce la rivista “Malebolge”, con Antonio Porta, Giorgio Celli, Claudio Parmiggiani e Corrado Costa, oltre ai reggiani Ennio Scolari e Paolo Carta. “Malebolge” si proponeva come rivista alternativa al “Marcatré” (che era allora la “voce” del Gruppo 63) e aveva il sostegno dell’editore Scheiwiller e di Antonio Porta che da Milano mandava avvertimenti a non esagerare. Ma anche, sotto sotto, di Edoardo Sanguineti, che manifestava una opposizione costruttiva, come si direbbe oggi. Di “Malebolge” uscirono ufficialmente 4 numeri in tutto, di cui uno doppio, più un quinto pubblicato come inserto sul “Parasurrealismo” da “Il Marcatré”. Vi collaboravano anche i fratelli Luigi e Alberto Gozzi che a Bologna si occupavano di teatro.
A quell’epoca Adriano, dopo un aspro scontro con nostro padre, era già uscito di casa e abitava da solo nel centro storico, in vicolo Bolognetti, in una stanza d’affitto, con un lavandino in pietra e arredata con l’essenziale. L’unica lampadina, al centro, pendeva su un tavolo quadrato a illuminare l’immancabile macchina da scrivere, una Lettera 22 dai cui tasti sono nate le pagine del romanzo L’Oblò, moltissime poesie e numerosi articoli che Adriano andava pubblicando, oltre che su “il verri”, anche su “Nuova Corrente”, su “Uomini e Idee” e altre riviste. Io naturalmente andavo a trovarlo e una mattina mi ha aperto la porta Patrizia Vicinelli, in sottoveste, senza nessun imbarazzo. Patrizia la conoscevo già da via dei Poeti, ed era allora una bellissima ragazza, molto indipendente e attiva, e penso che fu in quel periodo che lei si mise in contatto, credo tramite Adriano, con Emilio Villa, e fu pubblicata su “Ex”. Se ci fu un flirt tra Adriano e Patrizia fu una cosa breve, ma la loro amicizia durò a lungo, interrotta però nel periodo del Mulino, non perché lei rifiutasse o le fosse proibito di frequentare il Mulino, ma perché era il periodo della sua latitanza in Africa, o suo esilio come preferite chiamarlo. In Italia era ricercata, e, Giulia Niccolai me lo ha confermato, non è mai stata al Mulino, anche se i contatti con Adriano non si sono mai interrotti.
Ed eccoci a Fiumalbo, sempre per proseguire lungo la via Emilia. In questo paesino di montagna nell’agosto del 67, fu organizzato Parole sui muri, un importante incontro di grande creatività e vivacità, con interazione tra la popolazione locale e gli artisti, ma anche tra gli artisti stessi, circa un centinaio che finirono per “occupare” pacificamente il paese. La nostra sistemazione era molto precaria e avventurosa, eravamo alloggiati sotto un tendone militare americano. Dormivamo su pagliericci con delle coperte, tranne alcuni “privilegiati” che stavano in albergo, come Arrigo Lora Totino, Corrado Costa, Julien Blaine e anche Adriano. Sotto il tendone dormivano anche Patrizia Vicinelli, e il poeta francese Henri Chopin, con moglie e figlia adolescente. A Fiumalbo si sono verificati anche episodi inquietanti, in parte a causa delle provocazioni di un gruppetto di artisti con alla testa il giovane Sarenco, che portavano a spasso un cagnolino chiamandolo Paolo VI; una mattina sul sagrato della chiesa comparve, in vernice bianca e a caratteri cubitali, una bestemmia composta da due termini le cui iniziali coincidono con quelle dell’attuale Partito Democratico. Ovviamente ci fu una reazione scandalizzata da parte del parroco e della cittadinanza, compreso il sindaco comunista, Mario Molinari che aveva patrocinato la manifestazione. Molinari ebbe il suo bel daffare per calmare gli animi, ma ciò non impedì scambi di insulti e pressanti inviti a sloggiare. La promiscuità sotto il tendone venne fraintesa e un paio di montanari ubriachi inseguirono di sera Patrizia con intenzioni poco serie: a difenderla intervenne il robusto Gian Pio Torricelli, che ne prese ma ne diede anche, spezzando il braccio ad uno degli assalitori. Ciò provocò l’intervento da Modena di polizia e carabinieri, che si limitarono a identificarci tutti e a invitare alla calma.
Ancora lungo la via Emilia, a San Prospero, a soli otto chilometri da Parma. Nel ‘66 Adriano era andato a trascorrere l’estate in una casa di campagna nella frazione San Donato, in una casa appartenente a uno zio di Anna, la sua prima moglie, con il figlio Riccardo che era appena nato. Lì in agosto noi tre fratelli discutemmo di un’idea che avrebbe dovuto realizzarsi un paio d’anni prima, una rivista intitolata Rabelais, da un’idea di Julien Blaine; ricordo che esisteva già il grosso cliché di zinco per la copertina, reso poi inutile dalla nuova soluzione trovata: decidemmo di realizzare questa antologia chiedendo ad una cinquantina di artisti e poeti di tutto il mondo di inviarci una pagina in trecento copie, possibilmente con un intervento manuale, che desse un’idea del loro lavoro, naturalmente legato allo sperimentalismo. Scegliemmo come titolo per l’antologia il nome del contatore GEIGER per la rilevazione della radioattività, proprio perché il livello di sperimentazione nell’opera d’arte o letteraria ci appariva paragonabile a quello della radioattività, nocività a parte, s’intende. Ci interessava il discorso della contaminazione fra i generi artistici e le loro modalità espressive, tanto è vero che gli autori indicati appartenevano, chi più chi meno, agli ambienti di Inter/Media, derivanti quindi da Fluxus. L’antologia uscì poco prima di Fiumalbo, ed ebbe un notevole successo, piacque moltissimo anche se ebbe una circolazione limitata, ovviamente. I consensi ottenuti ci spinsero a creare, l’anno dopo una casa editrice che prese il nome di Edizioni Geiger. La sede ufficiale era a Torino, anche se i primi due libri li stampammo a Bologna: il primo fu Il pesce gotico di Giorgio Celli, l’altro Atest di Franco Vaccari. L’anima di tutto era Adriano, anche se in quel periodo, siamo nel ’68, era impegnato a Roma nella redazione di “Quindici”. Ma anch’io, a Torino, dedicavo molto tempo alle edizioni Geiger. Tra il ’68 e il ‘69, pubblicammo più di trenta titoli, una parte dei quali assemblati a mano in casa dei nostri genitori. I primi libretti della collana di “poesia” vennero stampati in una tipografia di Rieti, questo va spiegato: stanchi di vivere a Roma, Adriano e Giulia per alcuni mesi fecero uno scambio di alloggio con Alberto Tessore, uno strano poeta che viveva a Limiti di Greccio con la moglie Urlike, e fu in questo periodo che ricorsero alla tipografia di Rieti per stampare alcuni titoli Geiger. Io poi li ricevevo a Torino e provvedevo alla distribuzione.
Dopo la parentesi romana il viaggio lungo la via Emilia riprende e approda al Mulino di Bazzano, dopo la chiusura di “Quindici”. Grazie alla disponibilità di Corrado Costa, che mise a disposizione per un affitto amichevole la casa dove era nato, il casale del Mulino appunto, Adriano e Giulia trovarono il luogo ideale per riflettere, al riparo dai rissosi ambienti letterari romani, sulle sorti della poesia. A Mulino di Bazzano si gettano le basi per la futura rivista “Tam Tam” il cui primo numero uscirà nel 1972, nell’ambito delle Edizioni Geiger. Era questa l’idea fissa di Adriano sin dai tempi dell’osteria di Via dei Poeti e “Bab Ilu”: realizzare una rivista tutta sua, da lui diretta e redatta, con pochi, fidati collaboratori, con una grafica semplice e un formato tascabile. Per un certo periodo “Tam Tam” fu addirittura non solo composta ma anche stampata in casa, con una piccola offset da tavolo, ma in seguito si dovette ricorrere nuovamente alla tipografia. Non per la composizione dei testi, però, che Adriano continuò a fare personalmente, usando una varityper a testina rotante. Un po’ alla volta trasferimmo al Mulino le attrezzature tecniche che avevamo a Torino nella casa dei nostri genitori, in Val Susa: finimmo questo trasloco nel ’75, quando ormai nostro fratello Tiziano abitava da qualche anno quasi stabilmente con Adriano e Giulia, trasformato in tipografo. A Torino io mi occupavo soprattutto dell’amministrazione e della distribuzione dei libri: ero un giovane padre di famiglia, con un lavoro fisso, e non avevo modo di muovermi liberamente. Fu un decennio entusiasmante, ma poi le cose cambiarono. Alla fine degli anni ’70, dopo due viaggi negli Stati Uniti e uno in Australia, su invito di importanti università, il sodalizio tra Adriano e Giulia si interruppe. Anche “Tam Tam” visse un periodo di crisi, ma Adriano riprese a pubblicarla nel 1981, proseguendo fino alla morte. Ora il suo viaggio seguiva il corso dell’Enza, da Bazzano a San Polo, infine a Sant’Ilario, con la via Emilia sempre lì, a due passi. L’esistenza di Adriano si chiude il ventitré novembre 1988. Poco più di due anni dopo lo stesso destino raggiunge Corrado e Patrizia, lui a Reggio Emilia e lei a Bologna. Dopo il volontario esilio africano, dopo il carcere, dopo tante sofferenze, Patrizia aveva ripreso la sua attività poetica, partecipando anche ai festival organizzati da Daniela Rossi, che con la sua piccola casa editrice Ælia Lælia le aveva pubblicato Non sempre ricordano. Adriano è sepolto a Monte Chiarugolo, Corrado qui a Bazzano, Patrizia a Bologna. Quindi i nostri amici sono qui vicino, e sono sicuro che loro vorrebbero esattamente questo: dare la parola ad altri più giovani, non perché ripetano o rifacciano le loro esperienze, ma perché con lo stesso spirito, e la stessa volontà, e lo stesso divertimento, ne riprendano il percorso di ricerca poetica.
(le foto riprodotte sono sia personali sia prese dal web )