Se “Matera città dei Sassi” è stereotipo per turisti e invenzione per rendere appetibile sul mercato tutta una serie di prodotti collegati alla città lucana, “Matera città d’acque” è, forse, l’inaspettato e il non sospettato.
E invece, come d’altronde in larga parte del Sud d’Italia, fin da quando si sono formate comunità stanziali, uno dei problemi vitali da risolvere è stato proprio l’approvvigionamento d’acqua.
La pietra di cui è fatta Matera è la calcarenite, sedimentaria che non trattiene l’acqua, ma la lascia filtrare e scorrere via: abitare nella gravina materana ha significato, così, progettare e inventare sistemi idraulici capaci di raccogliere e conservare l’acqua piovana.
È vero: l’occhio che s’inoltra per il Sasso Caveoso e per il Sasso Barisano conosce la vertigine di guardare centinaia e centinaia di porte, finestre, scalei, aggetti, canne fumarie, balconcini, ballatoi in un moto continuo dal basso verso l’alto e di nuovo dall’alto verso il basso, seguendo verticalità che sono, in realtà, l’aprirsi del “Sasso”, cioè della profonda fenditura dentro la pietra che, nel corso dei millenni, ha accolto un’intera stratificata civiltà.
È vero: l’occhio percepisce ovunque la presenza della pietra, gli “ingrottati” (grotte naturali o escavate cui si aggiungevano stanze costruite con blocchi di calcarenite lavorati e cementati tra loro) con i camminamenti, le piazzuole, gli scalei e gli edifici sia religiosi che civili decretano la presenza vitale della pietra abitata, lavorata, spesso anche decorata.
Ma ogni muro, ch’esso sia semplice e liscio, oppure finemente decorato con pochi, elegantissimi motivi astratti o floreali in bassorilievo, ogni muro reca displuvi, tutti in terracotta, cosicché l’intera città è percorsa da queste canalizzazioni, semplici in sé e bellissime, come le giudica lo sguardo portato a estetizzare quel che vede.
Al turista a caccia del folcloristico e del caratteristico (non importa se falsi) vengono mostrate, nel Sasso Caveoso, abitazioni nelle quali è stato riallestito l’arredamento più o meno originario, gli viene raccontato delle condizioni abitative e igieniche in cui le famiglie hanno vissuto fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento; ma pochi, forse, comprendono davvero che quello che oggi viene mostrato quasi luogo d’un enorme presepe era lo stato di subalternità e di esclusione radicale dalla storia e dalla società italiane, orribile offesa perpetrata contro la dignità delle persone.
Si estetizza anche la miseria profonda e abietta cui tutte quelle persone furono condannate.
È necessario, allora, sforzarsi di guardare con consapevolezza e documentarsi.
E non dimenticare. Accorgendosi che sono molte (troppe) le persone condannate, ovunque sul pianeta, a quelle medesime condizioni non umane: e che l’acqua (o meglio la sua assenza) è già motivo di conflitto e di migrazione.
Quasi ognuna di quelle case, pur miserevoli, possedeva infatti una cisterna: il Sud ha sempre saputo far tesoro di ogni goccia d’acqua caduta dalle nubi: “Matera città d’acque” significa infatti, per me, vedere, oltre il proliferare di facciate in pietra locale, il sistema, nello stesso tempo semplice e ramificatissimo, che raccoglieva le acque, le convogliava, le stipava in capaci ventri-serbatoio.
Sistema in parte visibile (i displuvi cui accennavo poc’anzi), in parte invisibile (i canali scavati nei muri, le cisterne piccole e grandi), costruzioni in materiali locali (argilla, cocciopesto, calcarenite) che dissetavano una grande comunità.
Matera/materia? E quale materia, oltre alla pietra e all’acqua? Una cultura plurimillenaria, se è vero che questo è luogo ininterrottamente abitato fin dalla preistoria, un legame spirituale, oltre che biologico ed economico, con i cicli stagionali, col respiro della Terra.
Le civiltà umane sono tutte legate all’acqua: non grandi fiumi, né laghi, neppure il mare, qui, ma le invisibili acque da accogliere e raccogliere, la neve che veniva stipata in grotte riattate a neviere, la pioggia, convogliata nelle cisterne, le acque reflue raccolte nel “Palombaro lungo” sulla soglia del Sasso Barisano.
Il visitatore (non il turista) vada a Casa Noha, dove l’opera a dir poco meritoria del F.A.I. non mostra il folcloristico, ma informa, anche tramite un documentario d’ineccepibile rigore scientifico, circa la storia di Matera – fino all’arrivo di Carlo Levi, a quelle sue poche e tragiche pagine di Cristo si è fermato a Eboli ed eccoli i nomi della nostra contemporaneità legati a Matera, anche scritture illuminanti e capaci d’incidere nella società e nella storia: queste sono le terre di Rocco Scotellaro e di Leonardo Sinisgalli, di Albino Pierro e di Assunta Finiguerra.
Quando la politica “scoprì” la situazione aberrante in cui viveva la gente non dette ascolto agli studi effettuati dal gruppo raccolto e finanziato da Adriano Olivetti: l’idea era quella di risanare i Sassi e consentire alle persone di continuare a viverci, ma in condizioni igieniche, lavorative e abitative degne di un essere umano – invece si decise di costruire un quartiere ex novo e di trasferire lì tutta la popolazione: si recise il legame psicologico e culturale con i Sassi, accadde nel giro di pochi anni quello che sarebbe successo poco più tardi e nel corso degli anni Sessanta e Settanta a tanti altri centri storici, ossia l’abbandono, abbandono che significò a Matera come altrove andare a vivere in periferie presto degradate, oppure emigrare verso il Nord o all’estero; in ogni caso perdita dell’identità comunitaria e culturale, spaesamento e perdita della memoria.
Probabilmente la Matera dei Sassi sta diventando un enorme supermarket per i turisti (b&b, ristoranti, botteghe di un’improvvisata arte ceramica, hotel “diffusi”…), probabilmente la speculazione operata dalle grandi società immobiliari sta già svendendo la Matera storica – tutto ridotto a merce da vendere infiocchettata e resa piacevole per l’ignoranza di massa: ché qui la sofferenza e l’esclusione sociale hanno prodotto infelicità e ingiustizia in proporzioni enormi.
Ingeborg Bachmann, che viaggiava per l’Italia e sapeva vedere il Sud, compone un testo poetico che s’intitola In Apulien (non inganni il titolo “In Puglia”: la poetessa sapeva che per secoli Lucania e Puglia hanno avuto un medesimo destino e che il toponimo designava anche larghe fette di territorio appartenenti oggi alla Basilicata):
Unter den Olivenbäumen schüttet Licht die Samen aus,
Mohn erscheint und flackert wieder,
fängt das Öl und brennt es nieder,
und das Licht geht nie mehr aus.
Trommeln in den Höhlenstädten trommeln ohne Unterlaß,
weißes Brot und schwarze Lippen,
Kinder in den Futterkrippen
Will der Fliegenschwarm zum Fraß.
Käm die Helle von den Feldern in den Troglodytentag,
könnt der Mohn aus Lampen rauchen,
Schmerz im Schlaf ihn ganz verbrauchen,
bis er nicht mehr brennen mag.
Esel stünden auf trügen Wasserschläuchen übers Land,
Schnüre stickten alle Hände,
Glas und Perlen für die Wände –
Tür im klingenden Gewand.
Die Madonnen stillten Kinder und der Büffel ging’ vorbei,
Rauch im Horn, zur grünen Tränke,
endlich reichten die Geschenke:
Lammblut, Fisch und Schlangenei.
Endlich malmen Steine Früchte, und die Krüge sind gebrannt.
Öl rinnt offnen Augs herunter,
und der Mohn geht trunken unter,
von Taranteln überrannt.
Mi sono provato a tradurre, anche se, lo ricordo, esistono le versioni ben più efficaci e attendibili di Luigi Reitani, Camilla Miglio e Maria Teresa Mandalari – e invito, lasciandosi catturare dalle suggestioni e dalle associazioni d’immagini che pullulano nel testo, a leggere lo stesso con l’occhio interiore rivolto non solo a Matera, ma anche a tutti gli insediamenti rupestri di Puglia e del Sud d’Italia, e alla Cappadocia, al Peloponneso, a Cipro, alla Georgia, a Petra e a tutti quei luoghi sul pianeta dove sono fiorite civiltà legate alla grotta (e all’acqua da procurarsi e risparmiare):
Sotto gli olivi scuote la luce la propria seminagione,
il papavero si rivela e ondeggia baluginando,
cattura l’olio e lo arde,
e la luce non va più via.
Tambureggiare nelle città d’ingrottati tambureggiare senza pause,
pane bianco e labbra nere,
i bimbi nelle mangiatoie
cerca per cibo lo sciame delle mosche.
Giungesse il chiaro dai campi fin dentro il giorno degli abitanti delle grotte,
potrebbe il papavero fumare dalle lampade,
il dolore nel sonno consumarlo tutto
fino a non avere più necessità di bruciare.
Gli asini si alzerebbero e trasporterebbero tubi per l’acqua,
corde intreccerebbe ogni mano,
vetro e perle per le pareti –
la porta dietro una risonante tenda.
Le madonne calmerebbero i bimbi e il bufalo andrebbe,
il corno fumante, al verde beveraggio,
finalmente basterebbero i doni:
sangue d’agnello, pesce e uovo di serpente.
Finalmente ruminano i sassi i frutti, e le brocche sono arse.
L’olio cola dall’occhio spalancato
e il papavero si piega ebbro,
assalito dalle tarantole.
Ernesto De Martino venne anche qui a studiare la cultura del popolo – ne nacque, tra gli altri lavori, il volume Sud e magia, indagine che dimostrava la coerenza di una cultura plurisecolare subalterna a quella ufficiale, anzi, marginalizzata e ignorata, disprezzata, ma che, anche in quelle pratiche e in quelle credenze divenute cascami di riti e credenze più antichi e ben più articolati (esattamente come accadeva nel tarantolismo salentino) conservava una visione appunto coerente del mondo, ancorata alla tradizione e all’oralità, dotata della duplice radice pagana e cristiana.
E a mo’ di congedo da questi luoghi materani riporto una scrittura per me ancora necessaria – Sempre nuova è l’alba, 1948, di Rocco Scotellaro – necessaria perché capace di fare piazza pulita di stereotipi e pregiudizi, perché capace di vedere un Sud in movimento verso il presente e il futuro, senza mai dimenticare, senza mai rinnegare sé stesso:
Non gridatemi più dentro
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento diperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra …
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
Le fotografie che corredano l’articolo sono di Luca Campigotto (e restano di sua proprietà); esse provengono dal sito Matera European Photography.