I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): attraversando “L’opera in rosso” di Massimo Morasso

L’opera in rosso, libro edito da Passigli nell’ultimo trimestre del 2016, possiede quella serietà di concezione e di costruzione artistica, intellettuale, etica di cui abbiamo bisogno se vogliamo che la scrittura continui a rivendicare il diritto di farsi ascoltare e il proprio ruolo di presenza in mezzo agli uomini – non avrebbe senso, altrimenti, prendere in mano un nuovo libro di versi, leggerlo, attraversarlo, lasciarsene invadere se tale libro non fosse in grado di segnarci la mente, ferirla se necessario, comunque destarla. E L’opera in rosso nasce nello e dallo stesso alveo di un altro libro pure necessario di Massimo, intendo dire Il mondo senza Benjamin (Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2014): la Nota dell’Autore che chiude il volume Passigli inizia con la lapidaria affermazione “questo libro è stato scritto nel 2014” (pag. 103), il libro Moretti & Vitali giunge in libreria, lo ripeto, sempre nel 2014, intercorrono due anni tra la stesura dell’Opera in rosso e la sua pubblicazione, in ogni caso s’intuisce una coerente e ferrea continuità nella ricerca di Massimo Morasso, dimostrata, oltre che in termini temporali, in quelli tematici e bibliografici e questo è uno dei motivi per cui costruirò quest’attraversamento in parte anche in forma di spola tra i due libri (esistono una complessità e una ricchezza notevoli e rare nel lavoro morassiano, per cui nessuno dei libri dell’autore genovese resta isolato rispetto agli altri).

 

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Memorie, vive, come polline s’intitola la prima parte (il libro è tripartito) dell’Opera in rosso ed è vero che la memoria costituisce una delle travi portanti dei due libri, là dove Blütenstaub è titolo sotto il quale sono raccolti testi di diversa lunghezza, per lo più tendenti all’aforisma e al frammento, d’un autore prediletto da Morasso e da lui tradotto, vale a dire Novalis – evidente la metafora della memoria quale polline fecondante e vivificante.
Ma: “Il salto nella scrittura onesta non riesce con la sola rincorsa metafisica. Lo scrittore, per essere tale, deve essere in grado di ordire un’architettura spirituale tramite un contenuto immaginativo, poetico, omogeneo. La precisione della parola ha bisogno di una lucidità autoriflessiva che occorre saper ritrovare nelle tenebre della propria ignoranza. Solo così il gesto della scrittura non corrisponde a un’egoistica contemplazione del proprio ombelico. (…) Scrivere onestamente, oggi, significa dar voce alla critica della forma dal punto di vista della forma stessa. (…) Io ho scritto nel segno unico di Vivien Leigh anche perché il regista che muove il teatro della mia mente mi ha chiesto di inseguire il segreto luminoso e profondo di un nucleo tematico-narrativo impersonale, di tutti e di nessuno. Perfino qui, adesso, scrivendo queste righe, io non sto consegnando alla carta un ennesimo framento (auto)biografico. Non solo, perlomeno. Non-identità e contraddizione permanente sono i termini più appropriati per dire gli orizzonti abissali entro i quali la mia anima è mossa al dialogo con se stessa. Ciò che mi intriga, qui come altrove nei miei scritti, è cancellare il mio volto, eclissare il mio io dietro la mia scrittura, esponendo sfacciatamente (parodicamente) le maschere della mia costellazione mitografica ” (Il mondo senza Benjamin, cit., pagg. 152 e 153) – teniamo ben presenti queste affermazioni durante la lettura che si apre con una citazione da un oscuro copista del Codice Cassinese (Scribere qui nescit, nullum putat esse laborem: tres digiti scribunt, totum corpusque laborat) e che trova dei solidi perni nel testo incipitario:

Davanti al Mac, io sono un amanuense medievale.
……………………………..La psiche sulla punta delle dita
infastidita, iena che rode i rimasugli del pensiero,
fissa su un punto spirituale
radicato nel sangue, nelle profondità della carne.
Ogni potenza, dentro,
tenta di articolare la sua voce,
e io trascrivo,
…………………..ravvivo lontananze irriducibili in parole.
In me il passato non è morto. È qui,

mi lavora
(pag. 11).

Massimo Morasso fa, insomma, i conti sia con l’invasività eccessiva e narcisista dell’io che con la tendenza estetizzante della scrittura, superando entrambi i punti difficili e insidiosissimi nell’unico modo forse possibile: egli affronta a viso aperto la questione, si pone dei riferimenti precisi e ineludibili, vale a dire quello del labor duro e costante, da contadino-operaio-amanuense della scrittura e quello della memoria-affondata-ben-dentro-il-presente, offrendo allo stesso presente una prospettiva profonda e complessa. “Sazio di forme falsamente consolatorie (…) mi sono ormai convinto del fatto che la maggior parte dei miei scritti, in fondo, sono sempre in qualche strano modo autobiografici. Il corsivo dopo il sempre sta a indicare come gli elementi fondanti il mio autobiografismo così singolarmente eterodosso non siano, a mio modo di vedere, tutti e necessariamente di carattere psicologico. Sospetto anzi che l’autoanalisi, sorretta in me, per mia fortuna, a un sobrio senso di realtà, sia un metodo si esplorazione di spazi fantasmatici che hanno poche tangenze con il cosiddetto pre-conscio, comunque ci si compiaccia di intenderlo. Raccontando di me, evito per quanto ne sono capace di parlare del mio io, spingendo il mio lettore a osservarlo come io stesso lo guardo: per via indiretta, sorprendendolo ai crocevia dei paesaggi interiori che lo circondano” (Il mondo senza Benjamin, cit., pagg. 13 e 14). E a pagina 16 scrive: “(…) una lingua che stimoli l’intelligenza, istituendo un dialogo a più voci fra sé, scrittore colto e “debordantemente” intellettuale, e un lettore disposto a sopportare la fatica dell’intensità” – e infatti Il mondo senza Benjamin è libro a più voci, terreno fertilissimo, poi, per L’opera in rosso, la quale, alchemicamente, vorrebbe essere lo stadio della ricomposizione e della fissazione della materia che ha attraversato gli stadi della dissoluzione e della purificazione.

 

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METAMORFOSI

I miei morti d’ardesia. E
……………..più dei corpi le voci.
Memorie, vive, come polline,
semenza di una luce che significa
ruminando parole,
…………………………riflesse, altrove,

altre parole
(pag. 12).

I morti sono una delle chiavi di volta dell’edificio intellettuale e poematico (“Non loro hanno bisogno di noi, / ma noi di loro” scrive Massimo a pagina 69) – in questo libro precipuamente i genitori, ricordati spesso e con struggente nostalgia (la madre, per esempio in versi lancinanti e indimenticabili, capaci di rendere ragione di tutt’intera una scrittura: “Non sono più un bambino – e tu non ci sei più, / donna che fui / dentro di te, prima di esistere. / (…) / Mi supplica la parola, / ti supplica. / Mamma ritorna. / Chiunque ascolti invochi: ritorna“, pag. 88 e il padre: “Mio padre che si aggira per la sala col carrello / parla con la vocetta di Fellini e mi assicura / che nulla si sa, che tutto s’immagina“, pag. 52) – morti che sono voci, per cui la scrittura diviene una sorta di canale o corridoio traverso il quale quelle voci ci giungono, ci raggiungono – similmente a quanto accade nel Mondo senza Benjamin (che già nel titolo dice di un’assenza) il tema ricorrente della morte non ha, però, né toni funerei, né da compianto, ma viene affrontato in forma di meditazione e di chiara consapevolezza: i morti sono coloro che, pervenuti a un livello più alto di coscienza, tale livello riportano al proprio caro il quale è legato loro tramite il tenacissimo filo della memoria e dell’affetto: nel Mondo senza Benjamin questo permette la scrittura di densi saggi dedicati a personalità la cui esistenza si mostra a noi compiuta anche in virtù del loro morire, consegnandoci così un percorso terrestre conchiuso e perspicuo, per noi esemplare in quanto possibile punto di riferimento e di riflessione; nell’Opera in rosso la scrittura in versi permette di donare al discorso un andamento anche lirico e un ritmo di canto, andando a costituire una sorta di dittico: la prosa (elegante e densa) del Mondo senza Benjamin e la necessaria concentrazione nello spazio di testi più o meno brevi nell’Opera in rosso.

E nel libro ecco, subito, Genova, indimenticabile per come Massimo ne scrive:

I croceristi scivolano in short
e infradito nel dedalo dei vicoli.
Il porto, appena sveglio,
oscilla dentro a un ritmo affaticato.
Dal suo cantuccio,
una puttana ammicca a un fattorino.
Il vento porta odori forti,
un vecchio cane si sdraia sul selciato
e in un guaito smorza il sonno dei portoni.

Commercianti e cinesi
armeggiano con l’oro dei lucchetti mentre il sole
si pavoneggia in mezzo alle finestre.
I suoi raggi si posano sui volti,
riaccendono le ardesie
(pag. 15).

(…)
e Genova è una ratta che s’imbuca
con tutti i sensi a fare ressa dentro ai vicoli
(pag. 16).

(…)

E in basso, smottati giù nella medina multitutto,
i marocchini che s’imbucano nei bar,
intirizziti migratori che rimbalzano fra i vetri
nel mezzo del mistero del vivente –

e questo basta, e le volatili radici del reale
(pag. 17).

(…)

Un torpido gabbiano
osserva dal tettuccio di una Yaris.

(Questo che esiste
si lega, dentro, fino alla vertigine
è un’eco che rimbalza
dall’al di là delle parole alla finestra
lungo l’oscuro, tenace corridoio
delle sillabe, memoria)
(pag. 18).

Genova è luogo di affetti, un riconoscersi da parte del poeta quale appartenente a una precisa comunità e a precisi ritmi di vita quotidiana, familiarità di situazioni e voci, di certi tagli di luce, di certi profili dei vicoli, dei muri, delle finestre; certo Massimo sa bene che chi legge queste pagine ha letto, per esempio, le Stanze della funicolare di Giorgio Caproni, i libri montaliani, magari anche Il silenzio di Genova di André Frénaud e i versi di Edoardo Firpo, e tanti altri autori che hanno cantato la città, ma non teme l’eventuale confronto: e in effetti la sua è una voce perfettamente distinguibile dalle altre che l’hanno preceduta anche per una sua peculiare attenzione alle persone che, in questi decenni, costituiscono la vita e l’anima di Genova; particolarmente riuscito mi appare quel connettere la città della propria infanzia con l’attuale che cambia anche in seguito alle migrazioni e quel dire situazioni del tutto quotidiane con un tono di affettuosa partecipazione e di umanissimo rispetto; chi pensasse a Genova secondo stereotipi derivati dalle canzoni di Fabrizio De Andrè avrebbe, in queste pagine iniziali del libro di Morasso, di che riconsiderare l’immagine d’una città che, appunto, viene qui contemplata con occhi caritatevoli (e sul tema della charitas tornerò tra poco) e liberi da clichés. Appare una Genova intima e molto amata, una città che è, letteralmente, luogo del proprio abitare e anche luogo eletto dell’anima e del pensiero dell’autore. E, appunto:

(…)
Brindiamo. È capodanno, un nuovo inizio
che ci è dato. Una misura di sole e di speranza
da opporre all’invasione della notte:
l’ora in cui tutto ci abbandona fra le cose

e abitare vuol dire stare qui
(pag. 19).

 

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La cristallina dizione del dettato poetico dice, in realtà, della contrapposizione tra la “misura di sole e di speranza” e “l’invasione della notte“, per cui “abitare vuol dire stare qui” nel senso di stare dentro la vita con piena e lucida coscienza, dentro la scrittura che è un portare a espressione tale consapevolezza, dentro il proprio tempo (quello in cui ci è stato dato, nostro malgrado, di vivere, ma che impariamo ad accettare e a conoscere anche perché una precisa istanza etica ci porta ad assumerne coscienza). Andando a leggere, infatti, la composizione che segue si può riconoscere uno dei passaggi-cardine dell’intiero libro:

Ombre sui muri, il bianco-
nero delle ardesie dappertutto,
il mare che si disfa nel respiro, il lezzo del salino
fra le edicole e le creuze.
Domani il vento, e pioggia,
oppure ancora un clima languido, uggioso,
un sole malato in un velo d’alba.

Mi dico: “La vita è in guerra
con la morte
………ma è più forte.
Non porterei con me il corteo
dei miei fantasmi
se non fosse”.

Come un gorgo in attesa
………….io, qui, i minimi segnali di alleanza,
………….gli inviti rapinosi, e gli echi di parole
ormai senza calore,
fioche, a stento percettibili.
…………..Lontano nell’oscurità: luci e voci
dentro di me a malapena resistono
(pag. 26).

Evidente è il meditare di un io che si pone tra vita e morte, tra luce e buio (oppure ombra), tra caos e razionalità. In un tale contesto emerge e s’impone la figura e la storia di Santa Caterina Fieschi Adorno, campionessa di quella charitas cui accennavo poc’anzi, vale a dire di quell’inclinazione spontanea e umana a comprendere e a volere alleviare la sofferenza altrui e che accompagna la vita e la scrittura di Massimo Morasso:

È morta il 15 settembre, Caterina.
Davanti alla sua casa mi concentro
per trarne un epitaffio,
avendo fatto tardi fra i parenti, i pazienti,
se la voce che viene, e mi sostiene,
passo da vico Indoratori e San Filippo
per risbucare qui alle spalle di Corvetto,
e se, nell’ordine ideale delle cose, il corpo
che ho sfiorato è già nel Regno,
sale con l’anima allo zenit dei reciproci domini,

il mio epitaffio, allora, non è solo il suo
(pag. 28).

Vedete quanto affetto anche per i luoghi, puntigliosamente nominati, torna a manifestarsi? E notate quell’andirivieni tra qui e aldilà, tra passato e presente? Il percorso a piedi del poeta è la manifestazione fisica di un percorso della mente, la struttura della composizione, richiamando certi stilemi (le anticipazioni immediatamente seguite dalle sospensioni e poi la chiusa in forma di sententia), ricorda la più alta poesia religiosa del Seicento tedesco e spagnolo e riattualizza, quindi, il tema del memento mori, ma per restituire al vivere la sua luminosità e necessità – siamo qui davanti a un modo per sottrarre l’io poetico all’arrovellarsi egotistico attorno a un proprio mondo chiuso e ombelicale e aprirlo a prospettive capaci di far dialogare l’io col mondo, con la storia, con una profondità temporale che, se percepita, ridà la giusta collocazione al presente. E “Caterina” diventa allora un affettuoso “Caterinetta“:

(…)
Caterinetta rinnovami, affinami al tuo bene.

Qualcosa cambierebbe sulla terra
se l’amor proprio si inchinasse a povertà
(pag. 29).

Pauper: nel significato evangelico essere o farsi povero significa spogliarsi di ogni superbia, vanità, liberarsi del proprio ego, liberarsi dalla brama di possedere , diventare novus, ossia nato a nuova vita, esercitando la fin’amor che vuol dire devozione e cura per l’altro e rinuncia al sé – “pull down thy vanity” mi vien fatto di ricordare citando il Pound dei Pisan Cantos, “strappa da te la vanità” e, forse più appropriatamente, penso al concetto e alla pratica della κένωσις, ovvero proprio dello “svuotamento” da ogni superbia, brama di possesso, egocentrismo. Più avanti nel libro il poeta scriverà in clausola finale al componimento di pagina 78:

(…) O
Caterina raccontami più a fondo
della fontana dell’amore,

dimmi di più

perché “tutto è un purgatorio / dall’inizio alla fine, / una catarsi dall’inizio” (ibidem) dentro cui il poeta vede lo spirito “i cui valori sopravviveranno / alla pazzia del mondo / perché sì” (ibidem) ed egli osserva “la forza del divino all’opera, i segnali” (ibidem), facendo così della scrittura parte integrante di quest’osservazione-ascolto-attesa (un’Erwartung, quindi, radicata nella presenza a sé stesso e al mondo, una spes futuri condivisibile anche da chi non crede o da chi non è cristiano).

 

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Ci sono nove modi di guardare una finestra,
o addirittura dieci se a guardarla sono i morti
con il loro sovrasguardo immateriale
che vede tutto il mondo in forma d’anima.
Non è da lì che passano gli spiriti, mi dico,
è nel riverbero di un soffio
nell’arco a sesto acuto di un’immagine
dove tutto risponde alla grammatica del cuore,
che inabissa
(pag. 30).

Possiamo guardare una finestra in molti modi. E questi modi dipendono dalla nostra capacità di perdere noi stessi” scrive Massimo Morasso a pagina 41 del Mondo senza Benjamin nel bellissimo saggio L’opera della vista e l’opera del cuore. Nove modi di guardare una finestra – nove o dieci modi, soprattutto, per meditare su punti di passaggio e d’osservazione, su luoghi che fanno accadere la congiunzione tra dentro e fuori, luce e buio, strada (o piazza) e casa; nella poesia dell’ultimo secolo ci sono, formidabili presenze, i muri di Vladimír Holan e quelli di Costantino Kavafis e, amo pensare, Massimo Morasso si sofferma su quelle aperture nei muri che sono le finestre e che, in ogni città di mare, sono anche aperture sull’orizzonte e sulla lontananza, o, comunque, sul carruggio, sulla calle, sulla traversa, sulla creuza.

L’anima cos’è? L’idea del corpo,
……………………………………………dice Nanni,
che i Greci conoscevano e noi no
(pag. 32).

Nanni è Nanni Cagnone, il poeta e l’amico e il maestro per molti scrittori genovesi (e non solo), colui che ha scritto della Grecità libero dal pregiudizio classicheggiante (si rilegga l’ampio saggio introduttivo ad Agamennone/Agamemnon, per esempio); Massimo Morasso trova qui, credo, l’equilibrio tra la tendenza cristiana a privilegiare l’anima e la sua dimensione rispetto al corpo e il dato di fatto che, mentre siamo in vita, viviamo nel corpo e ci rapportiamo con il mondo a mezzo del corpo; l’idea è quella perduta di sinolo tra anima e corpo (da non credente preferisco dire tra mente e corpo) e, a ben guardare, tutto il libro Il mondo senza Benjamin e anche il libro presente sono attraversati dalla meditazione dell’autore sulla morte e sulla presenza-assenza di entrambi i genitori, vale a dire delle loro persone spirituali e intellettuali e delle loro presenze fisiche, quale contrappunto e nutrimento al nostro vivere e, nel vivere, al nostro fissare sotto forma di scrittura e di lettura l’esistere quotidiano.

Propongo ora alla meditazione due strofe il cui ritmo e la cui struttura posseggono un’ampiezza distesa e meditante, mettendo in evidenza anche l’eleganza di suoni e di ritmi che caratterizza il libro:

Mi sono stancato la vista a furia di orizzonte,
dei colpi d’occhio dell’eternità del mare,
quell’ondeggiare e i cirri che s’accendono,
ma poi ho capito senza più guardare
che il mare è taciturno e imperscrutabile,
e che anch’io sono un essere del mare
………………………………………………e al mare incline.

Per i mei sensi cangianti.
Per la mia anima che fluttua.
Perché ho sentito il grido del delfino
(pag. 34).

Veniamo adesso a un altro testo che si può leggere entro una sorta di dittico:

La notte e, intorno, l’hu di una civetta
senza altre armi che i suoi occhi spalancati.
Creatura affine
sola con il suo lasciapassare di visioni.
Ma le costellazioni e chi le muove
non l’ascoltano? Come non fosse
la sua parola da lei a me
niente di più del verso di un uccello?

Siamo, civetta,
dei giardinieri in un giardino smisurato
e il nostro, non lo senti?,
è un canto di pietà
(pag. 38).

Sul comodino in camera da letto, accanto all’abat-jour, tengo una civetta della vigilanza lavorata in gres. Quante volte ho guardato negli occhi quel buffo, massiccio suppellettile come fossi davanti a una sfinge o a un aruspice, e ne ho saggiato la consistenza terragna, prendendolo in mano, tastandone la superficie, testandone ogni volta daccapo la pesantezza. (…) La civetta è un animale notturno, un uccello che veglia e scruta nell’oscurità. Porta sfortuna, lugubre “uccello del malaugurio” nella tradizione popolare, fra i greci era considerata un animale sacro. Malinconico e disciplinato è il suo “hu-o-ou”, e la sua cura sapiente si esercita in realtà lungo tutto l’arco del giorno” (Il mondo senza Benjamin, cit., pag. 60).
Sono convinto che Merleau-Ponty e in ispecie le sue argomentazioni intorno all’occhio e allo sguardo costituiscano punti fermi per Massimo Morasso e che cultura classica, cultura filosofica ed esperienza personale qui si saldino portando a emersione due testi i quali dicono del pensiero in rapporto con una realtà spesso enigmatica o, comunque, oscura – originale e indimenticabile è il nesso che l’autore stabilisce tra gli occhi dell’animale (lo sguardo, cioè) e il suo canto: lo sguardo del poeta si esprime nel canto o è il canto stesso e nel testo dall’Opera in rosso l’animale è giardiniere (vale a dire qualcuno che si prende cura di “un giardino smisurato” e il canto è “un canto di pietà“), nell’estratto dal Mondo senza Benjamin si dice di “una cura sapiente” che in realtà viene esercitata “lungo tutto l’arco del giorno“; tenere spalancati gli occhi sul mondo e sul buio significa prendersi cura del mondo, mentre il canto “malinconico e disciplinato” accompagna ed è esso stesso quest’applicazione dell’atto etico del farsi carico e del prendersi cura del “giardino smisurato“. La bellezza vi costituisce, allora, un elemento fondante, anche se (montalianamente) baluginante per attimi intuibili ma inafferrabili, rivelazioni che si ribaltano subito in altrettanti nascondimenti:

L’attimo, e subito dopo il suo dopo
che ne rimbalza il fremito mortale,
eco di una bellezza che s’intuì
prima di andarsene.

E la rivelazione che s’interna, torna
illegibile
(pag. 41).

 

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Si tratta del bilanciamento, non solo etimologico, tra la parola greca per “veritas” (ἀλήθεια, alla lettera dis-velamento, “rivelazione” scrive Morasso) e il verbo λανθάνειν (nascondere e Massimo dice “internarsi“, per cui torna, la rivelazione, a essere “illegibile“). La conseguenza è un’attività incessante del pensiero, una vigilanza continua dello sguardo si diceva poco fa, ma anche delle facoltà d’ascolto:

Kierkegaard pensava che ogni uomo
ha in sé un’inquietudine,
………………………………….un’angoscia di qualcosa,
che non osa ancora conoscere.
L’uomo, per lui, cova una malattia nello spirito.

(…)

Senza mai vera pace,
………………………torno anche stanotte ai miei fantasmi,
ne ascolto la voce ipnotica, rupestre,
che a poco a poco si fa una e penetra
le imposte, fuori tempo, inarrestabile.
È bastato che morissero i miei,
…………………………………….e i ricordi
sbattono le ali, uccelli neri
che mi osservano, più vigili di un faro,
da un cielo ulteriore, interiore.

All’improvviso
filtrata l’aria Kierkegaard mi appare,
spettro fluttuante tra lo specchio e il letto
che apre le porte dell’Incomprensibile.
Mi parla, scavato dall’angoscia,
e io rimango lì, sospeso a mezza via
in uno spazio ostile fra discorsi e rimorsi.
Poi la sua gobba si traforma in una nuvola.
…………………………………………………….La nuvola,
in un punto di domanda.
(pagg. 45 e 46).

Anche qui l’apparente gioco linguistico (ulteriore / interiore) non è gratuito, ma segnala e ribadisce questa continua connessione tra il qui e l’oltre, tra l’esterno e l’interno, tra la luce e il buio e interessante è il ribaltamento della prospettiva consueta: non la mente guarda i ricordi, ma questi ultimi, “uccelli neri“, osservano il poeta, veri e propri fari che sembrerebbero indicare una rotta ed è bello osservare come la città sul mare sia presente anche ora, così ricca com’è di uccelli e di luci, così inscindibile dall’universo immaginifico del poeta. E nell’immaginario di Massimo Morasso, nutrito in uguale quantità di esperienza personale e di cultura, Kierkegaard può manifestarsi quasi come uno spettro, vale a dire come una presenza non libresca, ma esistenziale, segno anche fisico (l’aria che filtra nella stanza) dell’inquietudine della mente e dell’affastellarsi dentro di essa di domande – il Cristianesimo del poeta genovese non è pacificato né pacificante, è affine a quello di Georges Bernanos, scrittore capace di discendere anche negli inferi dell’anima e di Cristina Campo, cui Massimo Morasso dedica una notevole lirica nella raccolta Viatico (Rimini, Raffaelli Editore, 2010):

CRISTINA CAMPO EN LISANT

Cristina mia imperdonabile penso a te
che leggi gli Atti del Concilio

e ne compulsi note e codicilli
poiché quanto è impossibile non è
se non l’inizio dell’interessante

e l’esperienza della grazia
dall’ineffabile muove entro l’ordine
del senso come in una liturgia.

Ripenso a te reclusa
che diradavi ogni nebbia in figure
dal cielo di una pentecoste continua

quando ormai il tuo cuore malato
desiderava che tutto tornasse
all’altezza della sua iperbole,

tu asceta d’inflessibile visione,
esilissima silfide e guerriera
per amore del mondo dietro al mondo

che ci stringe d’assedio ed è tutto ciò che abbiamo.

Il lettore attento si accorge subito delle numerose affinità di atteggiamento e di temi con L’opera in rosso e anche di quanto i libri e la figura di Cristina Campo siano riferimenti fondanti per l’autore ligure, il quale ha accostato l’opera e il pensiero di Campo in anni in cui quest’ultima non godeva del credito e dell’attenzione che, invece, in tempi più recenti finalmente ne mettono in luce l’importanza e la presenza problematica nella cultura italiana.
Approdiamo così a un testo che rappresenta la saldatura (posso dire “ufficiale” o “d’autore”?) con Il mondo senza Benjamin:

VILLA VERDE A SANREMO

La luce, quando nasce,
scoperchia l’immaginazione,
le cose si rivestono di un’aura,
e di un candore semplice
………………………………….nel bene.
Sento la meraviglia stamattina,
e Villa Verde sembra un albero del pane
curvato in mezzo all’orizzonte,
che sorride.

Fra il tronco e i rami
Walter penetra in me col tremito dell’aria
e impone la memoria di un destino irrisarcibile
come un peccato anche mio,
un torbido rimorso cui far fronte.
Sto lì a guardarlo, mi chiedo
per quale via è tornato in questo vacuo
paese di cinciarelle e fioriture,
ma è già un’immagine sfocata,
che ondeggia in controluce.
È pallido, lontano,
la sua bocca è milioni di altre bocche
e forse mi perdona

…………………………e forse no
(pag. 50).

La bellezza emozionante della prima strofa che nasce dalle immagini e dal ritmo si continua nella seconda strofa nella quale la fugace apparizione di Walter Benjamin oltre che ribadire un legame intellettuale e sentimentale tra Massimo e il filosofo tedesco (una sorta di “segno” nel nome del quale scrivere così com’era accaduto sempre per il poeta genovese quando aveva scelto Vivien Leigh a riferimento di molti suoi testi) proietta nel meraviglioso paesaggio sanremese la consapevolezza e la presenza non rimarginabile della Shoah, la coscienza di dover scrivere non dimenticando mai quello ch’è accaduto – è l’etica della scrittura contemporanea, la presenza della poesia alla storia proprio mentre sembrano prevalere tendenze revisioniste.

Attraversare le pagine successive è come attraversare un’autobiografia intellettuale in cui la lettura e l’infanzia fondano quello che lo scrittore sarebbe diventato (ed eloquente è il titolo di questa nuova sezione, oltre che splendido testo di un solo verso, a mio modo di vedere: Fra i fili della rete del vivente):

………………Leggere da bimbo su uno scalino di rocce.
Per ritrovarsi fiore ad aspettare
……………….le api
quando suggono vita dalle rose e spaziano
di mondo in mondo come angeli al lavoro
…………………………………….– e trasformarsi in rondine,
frullo di pena e di felicità
ebbro di pace in tanta irrequietudine
(pag. 57).

 

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A seguire i versi di questo testo ci si immagina il brusio che abita il giardino della lettura, torna alla mente la bella immagine di Ugo da San Vittore raccontato da Ivan Illich, quella “vigna del testo” ove i monaci che scrivono e che leggono sono, appunto, api al lavoro, operosi vignaioli.

Nella villetta primonovecento
con il terrazzo lungo su tre lati
(pag. 58)

dove Massimo ha trascorso infanzia e adolescenza il poeta fissa nella memoria e sulla pagina quel “lampo di un’estate interminabile (ibidem)” e una giornata di

Maestrale.
……………..Dentro a una sera d’oro
fra i rapidi zig-zag dei balestrucci
detta il suo annuncio
…………………………….d’aria
e lapislazzuli.

Ad ascoltarlo il mio giardino
……………………..e un bimbo, un arcipelago
in tempesta, e tutto intorno Genova,
scalena e verticale
avvolta nel paltò delle colline
(pag. 61).

Come dimenticare “Genova, / scalena e verticale” o quel bimbo “un arcipelago / in tempesta“? I balestrucci (anche questo sostantivo rimanda a un indimenticabile Montale, insieme con il vento di maestrale) compiono rapidi voli a zig-zag, e torna il Leitmotiv del giardino, da una parte locus amoenus, dall’altra metafora del fiorire e del fruttificare, allegoria dell’infanzia, e magari anche “pardêz” (vale a dire giardino recintato) dell’antico iranico e dunque paradiso perduto del quale permane la nostalgia. “E tutte quelle ortensie?” scriverà a pagina 93: dove sono, ora, quelle fioriture lussureggianti? Oppure: e come ignorare tutto quel fiorire, tutti quei colori? Come dimenticarli? Come non vederli, ancora, adesso? E può trattarsi dell’hortus conclusus della pagina e del libro, giardino recintato, ma capace di contenere il mondo, κῆπος dove coltivare il pensiero; scriveva Massimo in Le poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo (Genova-Milano, Marietti, 2005):

Curare il giardino,
potare il di più della vita,
l’eccesso che porta fuori misura,
che ammazza.

Impedire agli arbusti
di contorcersi in archi di caos
sparsi nel poco blu dell’orizzonte.

Senza dimenticare i giorni della violenza, la ferita inferta dal terrorismo, dalla contrapposizione ideologica violenta e omicida (nello specifico si tratta dell’assassinio del magistrato Francesco Coco e degli agenti di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana in salita Santa Brigida):

………………………………………………………….Guardammo la tv quasi per gioco,
………………………………………………………….c’erano i corpi stesi, fra i cronisti.

Osservali, quei corpi,
senza vita
……………..stretti in un unico destino.
…………………………………………………..Cos’è,
ti chiedo, il tempo,
………………………….e gli anni
cosa sono,
……………..perfino i più lontani
……………………………..che ritornano:
fa caldo, le pesche cominciano
a marcire, giù a Santa Brigida
ecco la storia
………………….o un suo moncone che ci addita
e fa di un dopopranzo una tragedia
di martiri fantasmi e giustizieri…
Le due del pomeriggio. Un liceale
si scapicolla a benedire tre cadaveri.
E gli assassini scivolati
nell’intestino complice dei vicoli,
cosa saranno diventati, a cose fatte,
i vivi i morti
asserragliati in quest’eterno che li inchioda –
gli scarti di un’idea
………………………….finita dove,
quando?
(pag. 62)

Manifesto di tutti noi, gli illusi che non cedono al “senso pratico” posseduto, invece, da coloro i quali ben conoscerebbero la vita come veramente è, ecco una composizione costruita tra un rattenuto dolore e l’orgoglio di aver fatto scelte ben diverse rispetto alla mentalità mercantile dominante e apparentemente vincente:

Mia madre mentre piange al davanzale
della finestra in cucina, per via delle parole
di suo suocero, mio nonno, che vollero
di me fare un più piccolo me stesso,
un artigiano in piedi dietro a un banco
ostaggio di una buia identità
con il suo carico d’angoscia muta e inesprimibile
perché la vita è dura e non perdona
se si trascina dentro a una realtà senza visioni
tarlata dal bisogno di far cassa.
La vedo, nella grazia, e ne sono riguardato,
poi ci avviamo insieme verso il tavolo e papà
distrutti e ricomposti
…………………………….in un tutt’uno
(pag. 63).

Si tratta di un ritratto di famiglia in un interno baciato da una commovente grazia (mi approprio di questo termine, impiegato dallo stesso poeta al verso 11) e affermazione di una scelta esistenziale compiuta senza esitazioni – e L’opera in rosso è, allora, anche questo rendere grazie ai propri genitori, la restituzione sotto forma di poesia e memoria dell’amore per il padre e la madre, un continuare in forma di libro e di ricordo il loro amore per il figlio, salvato in tal modo da “una buia identità” e da “una realtà senza visioni / tarlata dal bisogno di far cassa“. L’orribile e avvilente mentalità mercantile, il basso livello di una vita deprivata della sfera spirituale vengono stigmatizzati in questo testo che s’impone anche per un ritmo preciso e perfettamente studiato: lo si rilegga e ci si accorgerà degli enjambements (forti) che scandiscono i primi quattro versi, mentre la virgola alla fine del quarto verso impone una pausa e una ripresa del respiro per il blocco concettuale susseguente, costituito da tre versi ognuno perfettamente concluso in sé e di scultorea valenza, mentre il “perché” che apre l’ottavo verso introduce anche la sentenziosità dei tre versi che si chiudono con il punto fermo. È un ritmo teso e nervoso, pur nella precisione degli accenti e delle scansioni, che si distende, rasserenato, negli ultimi quattro versi; lo spazio della stanza, percorso da madre e figlio dalla finestra (il pianto) al tavolo (la ricomposizione della famiglia) circoscrive questo ricordo che è affermazione di un destino, non imposto, ma scelto e, anzi, contrario, nella sua orgogliosa libertà, proprio al tentativo del nonno d’imporre viceversa un destino da mercante al nipote.

 

quaderni

 

E questo nipote, che con rapita passione coltiva il giardino delle proprie letture, ha un cane (“breve esistenza pelosa” che gli ha allietato l’adolescenza, scrive l’autore in nota) di nome Dick, la cui vita e la cui morte sono presenze significative dal passato del poeta, capaci di animare quel medesimo giardino ed

(…)
Eccola, la casa tutta-spazi che mi ha custodito
e il suo giardino pieno di delizie,
mi entra nel sangue e chiede di raggiungerla,
gemma al mistero
che appaia il nascere il morire
………………………………………….e li affratella
in uno stesso flusso, sempiterno…
(pag. 66)

Amici e intellettuali, come Antonio Santori (“Questa è l’estate e Antonio è morto sei anni fa. / Scirocco sulle altane. Quasi piove“, pag. 51), come Alessandro Spina (“Quel crocevia di mondi / l’ininterrotto dialogo fra i grandi / in un silenzio claustrale / lo stesso di una disciplina militare / che chiami a presidiare un’invisibile fortezza / – la sua legge – / e in lei l’idea dell’ospitalità / cui inevitabilmente segue il bene“, pag. 70), maestri riconosciuti come Mario Luzi (“Perso / nei suoi pensieri ecco il poeta. / E quell’adolescente mangiaversi / fra i dorsi in caccia di una sintesi / ideale“, pag. 71) accompagnano la formazione di Massimo Morasso, trovando in questo libro un riconoscente, commosso omaggio – ché L’opera in rosso è, anche, un lungo atto di riconoscenza in forma di scrittura.
La scrittura, la parola, appunto:

Quella gioia, quell’oscura
consapevolezza
………………di essere nel giusto
in compagnia delle parole (…)
(…)
Ci smaga da noi, la parola,
ci rende esploratori
del nostro stesso desiderio,
del popolo dei sogni e del reale
che dà sapore e sensi alla realtà.
(…)

viandanti all’arrembaggio mentre andiamo
……………..giù, che è uguale
……………..uguale a dire
……………..su, nell’ampio e nell’altezza scivolando
verso gli spazi, dentro, che convergono
dove risuona l’eco dell’origine,

poesia
(pag. 80).

La parola, la scrittura, una febbrile attività, il compimento dell’opera, il distacco che appartiene all’ordo vitae:

Febbre del fare. Fare
che è uguale a contemplare,
……………………………………permettere
che la vita si celebri da sé –
che esploda, che si dia, racconti
umanamente sotto al primo cielo
l’ordine e la forza che la crea.
Come quando adesso, qui in giardino,
vedo le rocce diventare cenere
e accetto anche il distacco come un dono
(pag. 83).

Propongo ora all’attenzione dei lettori un verso e un intero componimento:

il fanciullo destinato-a-scrivere (pag. 89);

Amici? Pochi.
…………………..E anche quei pochi
scagliati fuori nell’idea
di diventare grandi, nell’anticamera dei giorni
a fare gruppo, a fare chiacchiera
e poi fumo,
e rispondere così,
con l’abbraccio vinoso del non essere,
all’immobile noia.
Mentre io mi nutrivo di immortali.
……………………………………..Una follia,
un popoloso apprendistato.
Ma è così che è l’amore.
Una follia. Uno scavo. Una memoria
dell’origine, febbrile.
Fa il giro del corpo
………………….e scende nel futuro
lungo una strada d’oro e lapislazzuli,
lastricata di sogni…
(pag. 90)

Non c’è ormai più dubbio che Massimo Morasso tenda a far coincidere vita e scrittura e che la sua poetica sia di vita che di scrittura consista nel “nutrirsi di immortali“, “una follia“, un “popoloso apprendistato” (quale magnifica espressione!), “Uno scavo. Una memoria / dell’origine, febbrile” – “Ma è così che è l’amore“. Si capisce bene perché un Novalis, un Rilke, un Holan (leggete, vi prego, le pagine bellissime dedicate al grande Praghese nel Mondo senza Benjamin) costituiscano punti di riferimento per Massimo, in una continuità attraverso il Novecento di quella poesia che s’immerge nell’inquietudine dell’essere umano e che ne attraversa gli inferni, ma anche le nobiltà e le aspirazioni; scrive infatti il poeta genovese: Judy Abbott sono io (pag. 91), identificandosi in tal modo con la protagonista del romanzo Papà Gambalunga, vale a dire con chi, con modestia e anche con tenacia, ha dedicato la propria esistenza allo studio e al proprio progresso umano, in un continuo apprendistato esistenziale – infatti ecco di seguito comprovato quanto affermavo a proposito della coincidenza, in Massimo, del vivere e dello scrivere:

Vivendo.
………..Vivendo e scrivendo
fin da piccolo io
sospeso a mezza via
nel puro spazio fra parole
……………………………….e cose
(pag. 92).

Veramente scrivere è un volo nello spazio (“puro“, afferma Morasso) tra le parole e le cose, davvero accade di conoscere, scrivendo, l’ebbrezza del volo e la libertà impagabile del pensiero e della fantasia quando si librano al di sopra degli affanni e delle volgarità (tante, troppe). Ma continuiamo a seguire il poeta nelle sue riflessioni perché aiutano a ritrovare fiducia più che nella poesia (la quale non ha colpa dei tradimenti di cui è vittima) nei poeti (essi sì, spesso colpevoli nei confronti della poesia stessa e dei lettori o perché infantilmente narcisisti o perché dimentichi del legame con gli altri e con la storia):

Non di quisquilie. E nemmeno di vittorie.
Chi parla in questo chiaro
non riconosca più
la propria voce,
trovi degli uomini, non uno,
poiché l’arte di scrivere
è l’arte di pensare anche per gli altri.
Ma neanche di resistere si dica.
Poesia è un fatto di presenze –
e la parola, un’eco
nel quale vibra la memoria
dell’origine, col suo
respiro cadenzato, che non smette.
La vita non ci deve nulla.
Noi, invece, le dobbiamo tutto
ciò che siamo
o che possiamo diventare.
Una voce
…………….che canta
…………………………..imprigionata nella carne
eppure libera, mai sazia di dolcezza,
l’allodola di notte,
anonima e furtiva,
che guizza dal muretto
………….al nido appeso al muro
e poi chissà
(pag. 94).

Un’eco, molti echi riverberano in questo bel testo: Hölderlin innanzitutto, Heinrich Heine, Ingeborg Bachmann, e i Russi come Mandel’štam, Pasternak, Akhmatova, Cvetaeva, e Dickinson, e Antonio Machado, e i Francesi come Valéry, Char, Risset… anche se mi sto infilando in un vicolo cieco perché Morasso è poeta coltissimo e ogni lettore potrebbe a buon diritto formulare numerosi altri nomi e comunque questo non vuole inficiare l’originalità del testo, bensì corroborare la mia convinzione secondo la quale quando un componimento ci riconduce istintivamente ai nomi di altri poeti è perché la sua complessità e il suo valore hanno profonde radici nel terreno comune della grande poesia e il lettore riconosce subito le interconnessioni tra i testi.
A tale proposito Morasso usa due espressioni molto pregnanti: “veemenza dei ricordi / (…) / nell’orcio della mente” (pag. 95) che il lettore può anche, arbitrariamente, riferire a queste interconnessioni con testi e libri d’altri autori, ma che, ovviamente ed esplicitamente, fanno riferimento ai ricordi personali dell’autore, alla sua “coazione a interpretarli” (ibidem), il quale autore conclude con la sezione Pensare: silenzio, costituita soltanto da un testo dal quale riporto i versi che seguono:

(…)
Sente una logica
e la bellezza che sta nel suo sentire
l’eterno l’attimo il presente,
pensa ai suoi cari
dentro il pensiero che adesso li contiene
anime prese, spera, in un chiaro mutamento,
…………………………………………………..sente il respiro
distendersi in un ritmo
nel suo silenzio largo
quieto, senza arbitrio, in un vivente nudo, appeso
al proprio inesauribile principio, sente nel petto
un creaturale rispondere a una legge
fra moto e stasi fra materia e idea
sente la vita nel profondo del silenzio
che tutto avoca a sé
in una lotta senza fine
(pagg. 99 e 100).

 

 

Tutte le immagini che corredano l’articolo provengono dal sito dell’artista genovese Luisella Carretta e rimangono di sua proprietà. Consiglio vivamente agli amici lettori di visitarlo e di perdervisi con la mente e con l’anima.

Segnalo infine l’esauriente e appassionante letterainversi che il sito bombacarta ha dedicato all’opera di Massimo Morasso e dal quale ho tratto i due testi appartenenti alle raccolte Le poesie di Vivien Leigh e Viatico, senza dimenticare che l’opera di Massimo è anche espressione di un gruppo di poeti, intellettuali, scrittori e studiosi che fanno di Genova, in questi anni, un luogo alto di riferimento per la cultura italiana e non solo.

 

 

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