I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): “Parola e pericolo” di Marco Ercolani

Sono onorato e felice di poter ospitare all’interno di questa rubrica un intervento di Marco Ercolani, una riflessione articolata e stimolante intorno alla parola poetica.

 

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Parola e pericolo

1.

Leopardi ci rammenta nello Zibaldone (26 luglio 1820):

«Notate che nei pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della stessa disperazione e pazzia».

Dalla prosa dello Zibaldone affiora sempre questa “guardatura profondissima”, che mette la parola in pericolo. La sintassi non mostra niente di classico. Il fraseggio si sviluppa per frasi appese, scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all’indietro, ripetizioni avvolgenti, un andamento aperto che spesso si perde in un “eccetera”. Leopardi non “mette in prosa” blocchi di pensiero già pronti, insegue idee che si sviluppano con e nel flusso delle parole. Produce una mobilità di scrittura che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa del dire qualcosa che fino ad allora non si pensava. La linea della prosa non è retta: è erratica e frammentaria, mobile e sospesa, come un pensiero sempre interrogante e sempre incompiuto, del tutto privo di protezione: la mancanza di protezione è il “pericolo” di questa prosa imperfetta. Ogni frammento dissemina parole, per ricordare che il cammino si sta svolgendo all’aperto. La letteratura italiana non possiede un altro esempio del genere, con il fraseggio che scivola tra diversi punti di un orizzonte non definibile. A ogni pagina si passa da un tema all’altro, da una riflessione all’altra, senza che una visione si riassuma in una teoria conclusa. Si va avanti per onde di pensiero, aperture, sequenze, richiami musicali. La visione di Leopardi non prescrive limiti, invita all’erranza, allo sperdimento. Non si può leggere lo Zibaldone sperando di ricavarne una teoria; si può solo trovarvi il senso di un cammino che si sta svolgendo all’aperto, con lontananze e riflessi che possono attrarre lo sguardo dell’osservatore. Sono i poli dell’illimitato e del finito, tra cui si situa ogni visione del sensibile non bloccata da astrazioni. La linea della prosa leopardiana si muove seguendo i richiami delle immagini che affiorano, gli stati emotivi del pensiero. Ogni citazione dallo Zibaldone corre il rischio della vaghezza, è un frammento estraneo a ogni sistema.

Leopardi propone un esempio di scrittore: spericolato, privo di steccati, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti-riflessioni da flâneur. Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arrivare, ma il continuo transitare attraverso stati emotivi, gioie, dolori, umori che insorgono: l’anima di questa scrittura è un modo di scrivere non ancora catturato dalle “rappresentazioni del reale” o dalle “categorie della mente”. Le frasi pensate, il pensiero confezionato, hanno perso il ricordo di questa mobilità nervosa delle parole, determinante in Leopardi come nucleo della sua “filosofia non filosofia”, e che pone in primo piano gli stati di sensibilità, le inclinazioni del pensiero, gli ànsiti, i desideri. Lo Zibaldone è un diario affetto dalle parole. Come quando “si è affetti da una malattia” così si resta affetti dalle parole, e i pensieri diventano onde, desideri della visione, allucinazioni percettive, idiosincrasie. La “ultrafilosofia” leopardiana non avvolge le emozioni con i riflessi psicologici dell’interiorità, ma le intende come effetti dei sensi che sfuggono al volere. Nessun altro pensatore-poeta richiama con tanta sicurezza questa germinazione naturale del pensiero che permette di uscire dalla triste ragionevolezza e dalla noia uniforme delle filosofie analitiche: il linguaggio della prosa è il vettore fluido e ideale per rappresentare il ritmo di questa ondulazione, indicibile reso dicibile senza l’andare a capo della poesia, flusso emotivo espresso da uno strumento più duttile e meno assoluto che le nitide e rigide epigrafi dei versi. Non “prosa poetica” ma “anima” della prosa, lunare fantasticheria, musica-improvvisazione, che tende sì a diventare frase poetica ma senza completare mai la metamorfosi, restando sempre sospesa, lungo e mai concluso journal. Ma dove la fine è già stabilita:

«Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla».

2.

Contemporaneo di Leopardi, Friedrich Hölderlin, qualche mese prima di perdere la ragione e di essere rinchiuso nella torre di Tubinga vegliato dal falegname Zimmer, scrive:

«aperte le finestre del cielo
e lasciato libero lo spirito della notte
assalitore del cielo, che ha la nostra terra
sedotto, con molte lingue impoetabili, e
rotolato le macerie
fino a quest’ora”.

E ancora:

«E ciò che tu hai
è tirare il respiro.
Infatti se uno lo ha
levato alto nel giorno,
lo ritrova nel sonno,
perché dove gli occhi sono coperti
e legati i piedi,
lì tu lo troverai».

La poesia, sfondando la pienezza della voce, è lì a “tirare il respiro”; quel respiro, che prima era canto pieno della poesia e ora è vuoto pieno di silenzi; lo si tira come un peso, sul filo sottile della catastrofe, personale e linguistica, gli occhi coperti, senza vedere, i piedi legati, senza camminare. Nel momento della massima pienezza di canto, irrompe l’esperienza di Hölderlin, gli Inni, l’Iperione. La necessità di una parola che lo metta a contatto dell’illimitato, dell’«aorgico», di una natura sottratta al potere dell’uomo, gli fa sgretolare la parola, lo rende folle e la rende folle. Nella parola si apre un varco. I grandi inni restano incompiuti. La poesia è poesia in quanto esperienza dell’impossibile, dell’indicibile: lo è di nuovo (potremmo ricordare Parmenide, Lucrezio, gli Oracoli Caldaici). Il luogo del poeta, secondo Benjamin, è il luogo dell’origine, ma non all’interno di un mito favoloso, di un archetipo di purezza, bensì dentro un consapevole ritorno all’origine, a quella “spoliazione” originaria che è il grido, balbettante di fronte all’irruzione di ciò che fa ammutolire.

 

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Poi, dopo l’esperienza del grido, dopo l’esplosione della follia, il poeta comporrà tranquille quartine sui paesaggi e sulle stagioni, protetto grazie alla follia dalla breccia che lui stesso aveva contribuito ad aprire nella pienezza del linguaggio. Rinchiuso fra le mura protettive della torre di Tubinga, Friedrich Hölderlin firma le sue ultime quartine con il nome fittizio di Scardanelli. Questi versi non sono tanto l’espressione di un linguaggio poetico folgorato dalla veggenza quanto la testimonianza di una pacificazione interiore tortuosamente raggiunta, una pacificzione misteriosa, ma appagante. Il poeta impervio e frammentario degli ultimi inni, rinchiuso per trentasette anni come demente nella celebre torre, rompe il silenzio per comporre pacate e bucoliche quartine, Nel periodo della pazzia le quartine di Scardanelli, datate in un tempo anteriore o posteriore s quello reale, sono la regressione verso una lingua che elude l’esperienza dell’abisso. La follia si orienta in una direzione “conservativa”: provata la scissione intollerabile fra finito e infinito, sofferto il “venir meno” dell’estasi poetica, Hölderlin vive, da folle, una regressione consapevole.

I monti sono coperti di piante,
l’aria superba va per spazi aperti,
la larga valle per il mondo discende
e casa e torre posano si colli.
Con umiltà. Skardanelli.

3.

Mallarmé e Celan ci insegnano come la parola poetica sia antitesi tragica a ogni forma di pienezza: canto, sì, ma che entra nella compattezza del canto, lo dissolve e ne fa pulviscolo di prospettive. Il destino del poeta torna ad affidarsi all’urlo iniziale, alla sillaba uscita dal silenzio. La parola è stata canto, ha conosciuto la sua natura di canto, la sua felice onnipotenza: ora, è tornata a essere quel grido che l’ha sempre sostanziata.. La Parole archetipale di Char non è certo sacrale venerazione dell’archetipo poetico ma il personale “ordine insorto” del poeta verso quello stesso archetipo. E la sua celebre sentenza: «Dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti» trova la sua eco speculare nell’altra: «Il giorno nutre, la notte affina la parte nutrita».

La poesia deve innalzarsi (o meglio essere “sublime”, secondo l’etimologia della parola, sub-limen, affiorare dal basso, di sbieco) e andare oltre di sé. Bonnefoy scrive: “L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade”.

L’enigma della poesia è essere “fuori di sé”, è costruire le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza. Non vivere nella pienezza del canto ma alla sua radice: quel grido, che, in quanto grido, è la sperimentazione dell’impossibilità della parola, in quanto parola, di arrivare al suo oggetto, di descriverlo. Perché la poesia è stare, ai margini dell’afasia, la lingua mozzata davanti a qualcosa che ammutolisce il linguaggio. E non consente altro che uno stupor che crea e reinventa le forme del suo stupore con le parole della poesia. Essere nell’illimitato continuando a fondare limiti nuovi al linguaggio che ne descrive il dissolversi.

 

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«Il senso troppo preciso cancella la tua vaga letteratura» – sostiene Mallarmé, che non a caso si era prefisso di sabotare il linguaggio. Di costruire una poesia “oscura” che “progetti la propria oscurità”. Mentre Baudelaire, con il timbro solenne del suo largo, ci suggerisce l’immagine di un mare inquieto dentro le pareti metriche della sintassi, Mallarmé esplora la magia del fonema, la musicalità geometrica del timbro. Se la risonanza baudelairiana è il solenne e ritmico fluire dell’onda, il suono di Mallarmé è il prosciugamento di una lingua svelata come pura essenza. Il progetto è una scienza congelata del suono, che anticipa i frammenti musicali weberniani. I suoi versi sono diamanti sfuggiti al Libro, pezzi abbacinanti che potrebbero anche non esistere e non muterebbe l’ascesi del progetto. Jeu de prestige giocato sull’orlo di un nulla mai perturbante, spalancato nel fregio di un ventaglio, la poesia mallarméana non è tragica nei suoi testi – astratte coreografie di suoni – ma in ciò che tacciono: il candore mortale della pagina vuota. Questo candore è, forse, il Libro che il poeta auspicava nella sua scientifica ansia di perfezione: l’accecante biancore in cui precipita la nave del Gordon Pym di Poe, la scena silenziosa del naufragio davanti alla massa bianca che sorge dall’acqua. Gli artifici grafici del suo celebre poema, Un Coup de dès n’abolira jamais le hasard, ci dicono che il poeta ermetico dei Sonnets è, in realtà, il poeta pericoloso di suoni scaraventati nella pagina come barche stilizzate, destinate al naufragio. La disposizione frammentata e ondulatoria del Coup de dès non tranquillizza nessun lettore. Chi volesse tradurlo, troverebbe più ispirazioni nella musica che nella poesia, nel silenzio che nella parola. Scrive René Char: «Il poeta deve accettare il rischio che la sua lucidità sia giudicata pericolosa. Il poeta è la parete dell’uomo refrattaria ai progetti prudenti».

Osserva un poeta contemporaneo, votato a una tragica fine, Lorenzo Pittaluga: la poesia è un «progetto di veglia /con sogno e manovra». In effetti la veglia è un progetto, qualcosa che nasce dall’informe, ma questo progetto si sostanzia di due cose: il sogno (l’irrazionale) e la manovra (il controllo dell’irrazionale), fusi insieme.

Il silenzio è l’approdo a cui tende la parola. Ma non può essere il silenzio dell’inizio: deve essere il silenzio dell’arrivo. Il proprio silenzio, quello determinato dalle proprie – e di nessun altro – parole. Nessun silenzio è innocente. Nessuna armonia è possibile. Bisogna trovare, con il proprio linguaggio, il proprio silenzio. E, mentre lo si trova, vivere l’esperienza di uno shock, di un allarme, di uno stupore sempre nuovi, perché la poesia è linguaggio ammutolito, meraviglia per quanto non è pensabile, esperienza dell’impensato, magia del dire che si intesse alla “stregoneria del non-detto” (Luzi).

La poesia raggiunge, con forme diverse, la sua natura di grido (che è espressione, “espressionismo”) e si scopre porosa, lacunosa, traversabile da sussulti. Perché ogni arte autentica ha qualcosa di elementare, di atroce, di irriducibile alla logica del discorso. Poi, dopo tutto questo, dopo aver traversato il sogno e la notte, dopo essere stata a un passo dall’afasia, riprenda a essere canto. Ma canto nudo, breve, sempre all’inizio – che è anche approdo – di sé. Novalis scrive: «La poesia è il reale veramente assoluto». E contemporaneamente: «Il poeta ordina, raduna, sceglie, dispone». Realtà totale, e dunque tutto ciò che potrebbe essere reale, che lo è stato o lo diventerà, e nello stesso tempo capacità di filtrare questa percezione in forme. Se le parole hanno parlato a lungo, prima di arrivare a noi, e arrivano a noi non coniate, piene di silenzi e di suoni, il compito del poeta è ri-coniarle, per il tempo che durerà la sua opera.

 

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