Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – Magic Potion

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. La prima “Hidden Gem” proposta da Alessandro Calzavara (pubblicato il 3 dicembre 2015).


Carteggi Letterari è orgogliosa di ospitare una nuova rubrica musicale a cura di Alessandro Calzavara. Un modo per conoscere gruppi appartati, nuove dimensioni o riscoprire ciò che troppo sbrigativamente viene ignorato dalla cultura ufficiale. Un percorso di ricerca, dunque, in linea perfetta con le intenzioni della rivista.


MAGIC POTION

magic potion gruppo

La copertina, opera d’amico, in stile fantasy; la spartana impostazione grafica del retro: la foto di ognuno dei quattro membri, un’immagine psichedelica circonfusa d’aura casalinga raffigurante una composizione di funghi (probabilmente porcini, ma che importa) con barattoli di tè Twinings English Breakfast e due righe di sognante lirismo, tutto in perfetta ortodossia sixties (non fossero bastati nome della band e titolo del disco) ci suggeriscono (assai poco velatamente) che i Magic Potion di Roma (vedi qui) praticavano la nobile arte della psichedelia e che i loro riferimenti erano ben più ricercati di chi a malapena oggi sapesse d’un certo tal chitarrista pazzo, attualmente defunto, attivo nella prima formazione dei Pink Floyd.

magic potion retro
Ben prima della recente addenda (ed espansione verso territori non-americani dei due box successivi) di Nuggets, questi ragazzi vivevano nel culto di Open Mind (da cui il moniker della band) e Blossom Toes (per dirne giusto due) – e ingrossavano le file, per la verità sempre alquanto carbonare, d’un sottobosco italico assai ribollente e creativo, oggi, ahimè, poco “riscoperto” dalla critica ufficiale (se si eccettui l’ottimo e consigliatissimo volume “Eighties colours” di Roberto Calabrò) che, in epoca di neo-psichedelia diffusa, dava vita qui nello stivale, fra le sue resistenze e i suoi esoterismi, a una credibile italian way to psychedelia.
I Magic Potion sono, di quella scena (ma scena solo ideale, nella misura in cui poteva dirsi scena l’opera di pochissime e meritorie etichette: la High Rise di Federico Guglielmi, etichetta e produttore artistico di questo disco; la Electric Eye di Claudio Sorge; la Toast), fra i meno postumamente celebrati.
Ricordo la prima volta che m’imbattei nella musica del gruppo: fu in una vecchia edizione di Rock Targato Italia; facevano Happy Times (qui contenuta) e sembravano un po’ quello che erano: ragazzi molto schivi e consapevoli di rappresentare un passato poco tangente con quel mondo troppo ruffiano di luci e suoni svenduti. La serata fu insolitamente trasmessa da Italia Uno; i quattro (apprendisti maghi) erano concentrati sui suoni, sulle articolazioni semplici ma efficaci delle loro canzoni, sui giri di basso fantasiosi e caracollanti, sul drumming vario e sostenuto (non erano in fondo gli Open Mind gli artefici di quel meraviglioso andare di doppia-cassa nella canzone che battezza la band?), su delle belle trame per due chitarre, ora robuste ora pulite?
Io letteralmente amavo i Magic Potion, perché odoravano di muffa e incenso e perché erano referenziati da una musica che, ancora lontana dal mio orizzonte culturale, vi sarebbe presto entrata tramite la loro sollecita spinta. Li amavo perché erano abbandonati a se stessi in un paese indifferente e già in fase di lobotomizzazione mediatica, perché erano recensiti sui migliori Rockerilla della mia vita e perché avevano delle bellissime camicie paisley d’ordinanza. Li amavo anche se il loro secondo e ultimo album (“Misplaced in your perfect world”) virò verso una maggiore robustezza sonora, distanziandosi dalle architetture cristalline dell’esordio. Li amo perché ancora posso ascoltare un pezzo meraviglioso come “She locks” e sapere che al mondo saremo in un centinaio.
Provate a cercare questo disco in rete, qualche vinile potrebbe essere rimasto impigliato nella collezione di qualche cuore di pietra a corto di liquidi. Oppure fate un giro su youtube, dove mi sono premurato di caricarlo per intero…


Segue un’intervista che realizzai per indiepop.it, webzine fondata una decina d’anni fa con due amici (oggi defunta) che vanta tutt’oggi uno stretto ma strenuo giro di nostalgici. A interloquire sono Alberto Popolla (bassista), Fabio Porretti (ex-chitarrista anche dei Technicolour Dream; autori di altro gran bel disco -“Pretty Tomorrow”- e altri bei ricordi) e Marco Coluzzi (chitarrista/cantante).

Le nuove generazioni di ascoltatori di musica indipendente poco o nulla sanno della neo-psichedelia italiana degli anni ‘80 di cui voi siete stati fra i più creativi rappresentanti. Questo è dovuto in larghissima parte alla fitta cappa d’oscurità critica piovuta su quel periodo. A mio parere, una possibile spiegazione risiede nell’esser stato, quel periodo complessivo, e quindi non solo italiano, già di per sé piuttosto “derivativo”. Se a ciò aggiungiamo che anche quei modelli sembrano temporaneamente essere scivolati fra le mode secondarie, potremo intendere perché quella scena, molto dinamica, oggi sia così trascurata. Come altro spieghereste questo disinteresse?

Alberto: Mah, è un po’ complicato per me parlare degli anni ’80. Adesso ascolto e suono altra musica, però devo ammettere che tutto quel fermento che c’era in quegli anni è servito a qualcosa; dopo tutta l’esperienza progressive degli anni ’70 in Italia c’era praticamente un deserto per quanto riguardava i gruppi rock italiani. Sì la new wave e il punk avevano prodotto qualcosa ma è con la neo-psichedelia che ritorna la voglia di suonare, che escono fuori gruppi validi che poi lasceranno un terreno fertile per gli anni successivi. In fin dei conti se adesso ci sono gruppi rock italiani che hanno successo è anche, seppur in piccolissima parte, merito nostro… quantomeno per aver permesso di mantenere aperte le cantine e le sale prove! Il fatto che adesso non si parli di quell’esperienza non è certo una sorpresa; qui in Italia si tende a dimenticare tutto, come se il presente non avesse un passato. Succede in politica, a livello storico, figuriamoci se non può accadere a livello musicale.

Fabio: Non credo che quella “scena” di cui facemmo parte sia oggi particolarmente snobbata, piuttosto non è mai stata veramente considerata. A parte gli appassionati dell’epoca, il solito sottobosco underground, in Italia non esiste un interesse allargato per la musica rock in genere, così è sempre stato. Per l’Italia della musica “ufficiale” rock italiano sono la Nannini e Vasco Rossi, tristemente, il resto rimane sempre vivo per i pochi sinceri appassionati.

Marco: Rimango convinto che il nostro sia stato il miglior gruppo di quella scena psichedelica italiana.

Quali erano, in quegli anni, le vostre aspettative dall’essere una band di rock psichedelico? Partivate dall’idea di volervi mantenere una band dal culto ristretto (quello che credo siate rimasti) o miravate a qualcos’altro? In altre parole, era più forte il piacere di suonarla, quella musica, o la speranza di vederla conquistare il mondo?



Alberto: Guarda, per noi era fortissimo il piacere di suonarla, quella musica. Non abbiamo pensato mai di far successo, ci interessava soltanto suonare la nostra musica e lasciare registrato qualcosa che anche a distanza di anni avesse un valore… ci siamo riusciti? Forse.

Fabio: Ho l’impressione che nessuno di noi, proprio per quanto ho detto prima, abbia mai avuto la speranza che la nostra musica potesse avere un pubblico vasto, poi negli anni ‘80, figuriamoci, saremmo stati davvero un caso unico.

Marco: Personalmente sono sempre stato convinto che il nostro sarebbe rimasto un hobby, una passione che non si sarebbe mai trasformata in un’attività professionale, soprattutto considerato il tipo di musica poco commerciale che suonavamo.

In quegli anni la neo-psichedelia inglese e il paisley americano avevano grande diffusione e vendevano parecchio. In Italia era tutto molto diverso. Cosa differenziava la situazione italiana da quella anglo/americana? Vi sentivate in qualche modo collegati alla scena extra-nazionale o il vostro unico riferimento erano i modelli dei sixties? E fra quelli, quali in particolare? Quali sono i dischi che portereste nella prossima vita?



Alberto: La differenza tra la scena italiana e quella anglo-americana era che in quei paesi c’era una cultura rock ormai trentennale, c’era un mercato ricettivo… insomma c’era di tutto e di più. Da noi c’era veramente poco… come ho detto prima eravamo agli inizi. Io ricordo che mi piacevano molto i Dream Syndicate, i Rain Parade… Fabio era sicuramente più legato ai gruppi sixties. C’era troppa distanza per sentirci collegati alla scena extranazionale; in qualche modo ci favoriva, perché c’era una grossa attenzione per la neopsichedelia che poi ricadeva sulla scena italiana. Quali dischi per una prossima vita? Adesso ti risponderei cose molto diverse da ciò che suonavo e ascoltavo all’epoca; comunque anche oggi porterei sicuramente in una prossima vita i primi due Lp dei Pink Floyd, “In the Land of Grey and Pink” dei Caravan, il terzo dei Soft Machine… ah, i primi lavori degli Ozric Tentacles. Sono tutte cose che raramente ascolto ora ma mi sembrano sempre molto belle.

Fabio: Il paisley americano ebbe in effetti una certa diffusione ma non credo che quei gruppi vendessero milioni di dischi e neanche centinaia di migliaia. I miei riferimenti sono stati senza dubbio quelli sixties, in particolare la psichedelia inglese. I dischi che porterei con me? Vediamo: primo Pink Floyd – “Tomorrow” – “SF Sorrow” dei Pretty Things – “We Are Ever So Clean” dei Blossom Toes – “Escalator” dei Sam Gopal – “Agemo’s Trip To Mother Earth” dei Group 1850 – l’album dei July – “We Are Painterman” dei Creation – l’album dei Mighty Baby – “Round The Edges” dei Dark e tanti altri ancora…

Marco: A me piacevano molto in quel periodo Julian Cope e Robyn Hitchcock in Inghilterra, gruppi come Rain Parade e Dream Syndicate in USA. Nella prossima vita mi porterei l’album bianco dei Beatles, il primo album di Nick Drake e Nursery Cryme dei Genesis

.

Eravate in contatto con le altre band italiane? In ogni caso, cosa pensavate di quella scena e di quei gruppi (la scena pisana, quella milanese etc)? 



Alberto: No, mi sembra di ricordare che non eravamo in contatto con altre bands… questo in realtà smentisce un po’ l’esistenza di una scena. Però è vero che noi eravamo un po’ schivi e abbastanza isolati. Comunque ricordo che c’erano dei gruppi validissimi… dunque, mi sembra i Birdmen of Alkatraz. Poi c’era un gruppo di Brindisi o Bari, ora non ricordo, che incideva per la Mantra Records che era qui di Roma. E’ passato veramente troppo tempo… però c’erano dei gruppi italiani che mi piacevano veramente.

Fabio: No, nessun contatto ma alcuni gruppi erano buoni, forse tra le cose migliori dell’italico rock, ma le produzioni erano scadenti, mancavano figure che potessero supportare i gruppi anche a livello di produzione artistica.

Marco: No, nessun contatto. Ricordo che mi piacevano gli Allison Run.

Credete che in quegli anni si sia prodotta della musica che meriti di essere ricordata dai posteri, ovvero che vi fosse in quegli artisti un sostanziale apporto creativo alle sonorità psichedeliche (come io credo), o tutto si ridurrebbe (come questo antipatico silenzio della critica indurrebbe a credere) a una rivisitazione feticistica dei modelli?



Alberto: Sì, penso si sia prodotta della buona musica. Non tantissima, ma qualcosa che merita di essere ricordato c’è. Non era solo imitazione, c’era un qualcosa comunque di originale, di profondamente sentito che sfuggiva un po’ alla moda.

Fabio: Come detto molte cose erano buone, penso ai Birdmen of Alkatraz, ma le incisioni erano spesso inascoltabili, i nostri dischi erano tra i meglio incisi ed è tutto dire…

Marco: Non so, posso dirti che io ricordo quella musica con piacere e che comunque la psichedelia viene rivisitata periodicamente da molti artisti, per cui penso che in realtà sia sempre attuale e creativa.

Potreste tracciare una breve storia dei Magic Potion? Perché vi formaste? Perché quella scelta musicale? Perchè vi scioglieste? 



Alberto: Dunque, Fabio Porretti come penso sai, aveva formato insieme a Marco Conti i Technicolour Dream, autori di un bel disco. Poi avevano deciso di separarsi. Io e Marco Coluzzi invece, andavamo a scuola insieme e avevamo messo su un gruppo, i Castigo Ridendo Mores (era una frase di Gaio Lucilio, che era il liceo dove andavamo), e suonavamo una psichedelia un po’ più influenzata dalla scena americana. Registrammo una cassetta e siccome c’era una nostra compagna di scuola che lavorava come segretaria al Mucchio Selvaggio, la cassetta arrivò nelle mani di Guglielmi. Federico fece sentire questa cassetta a Fabio che era alla ricerca di nuovi compagni d’avventura e così ci incontrammo. Nel frattempo il batterista dei Castigo Ridendo Mores non c’era più e quindi mettemmo un annuncio su un giornale di inserzioni pubblicitarie qui di Roma. Rispose Massimo Palego, e fummo fortunati perché andò bene immediatamente.
La musica che cominciammo a suonare era quella che ascoltavamo, che ci piaceva. Fabio ci fece conoscere i gruppi sixties inglesi che io e Marco conoscevamo poco, ma in realtà fu tutto molto spontaneo.
Ci sciogliemmo perché finì la moda della neopsichedelia e noi non eravamo così convinti di andare avanti. Guglielmi chiuse l’etichetta, non c’erano altre offerte valide, insomma finì tutto così, in modo semplice com’era iniziato.

Fabio: Beh, io ero con Marco Conti nei Technicolour Dream, probabilmente il primo gruppo italiano ad aver inciso un album di psichedelia, però ci separammo, ascoltai un demo di un gruppo romano a casa di Federico Guglielmi nel quale militivano Marco e Alberto, li contattai e cominciammo a suonare insieme, con l’arrivo di Max Palego la cosa funzionava, avevamo affinità sia musicali che personali ed abbiamo continuato. Lo stile dei Magic credo sia l’incontro dei nostri gusti, differenti ma appartenenti a una stessa geografia musicale.

Marco: Ci formammo per una telefonata che mi fece Fabio Porretti, che aveva appena concluso l’esperienza Technicolor Dream. Cercava un gruppo cui unirsi e aveva ascoltato una nostra demo a casa di Federico Guglielmi. La scelta musicale derivò dall’incontro della passione di Fabio per la psichedelia Inglese dei 60’s con la scoperta della nuova psichedelia che io ed Alberto facevamo in quegli anni. Ci sciogliemmo perché, chiusa la High Rise e senza un contratto, non fummo in grado di affrontare le inevitabili difficoltà che ci si presentarono davanti

.

Come conosceste Federico Guglielmi e quale fu il suo ruolo nell’intera vicenda?

Alberto: Guglielmi fu il nostro produttore, ci permise di conoscerci, in parte ci consigliò anche dal punto di vista musicale, anche se rispettò sempre le nostre scelte. È stata una persona importante, uno dei pochi a rischiare di tasca propria per far uscire della buona musica.

Fabio: Appunto, Guglielmi lo conoscevo io, aveva prodotto per l’IRA l’album dei Technicolour Dream, si appassionò molto al suono Magic Potion, fu il nostro supporto musicale ed economico per la registrazione dei due album… un despota impietoso… ma un amico anche.

Marco: Mi telefonò una volta dopo aver ascoltato un demo che avevo lasciato presso il “Mucchio Selvaggio”. Fu lui a mettere in contatto Fabio Porretti con il resto del gruppo.

Siete soddisfatti di entrambi i due album dei Magic Potion? Ho sempre trovato il secondo inferiore al primo. Del primo mi piace la levigatezza e l’incisione più pulita. Nel secondo emerge una vena più “dura”. Come andò? 



Alberto: Uno non è mai completamente soddisfatto di quello che fa, pensa sempre che avrebbe potuto far meglio. Tuttavia sì, per come suonavo all’epoca sono moderatamente soddisfatto…
Sì, il secondo Lp è un po’ più duro rispetto al primo; mi sembra di ricordare che fu una scelta nostra… ci piacevano alcune cose del garage che all’epoca andava abbastanza. Però io non lo vedo così inferiore al primo, anzi. Per quanto mi riguarda ci sono delle cose di basso che mi piacciono molto… e dei pezzi molto belli.


Fabio: Non sono d’accordo col tuo giudizio, credo anche che il secondo album sia più maturo e pieno di buone invenzioni. Cambiammo sala d’incisione proprio per dare al suono una vena più aggressiva, più rock. Certo il primo ha suoni più cristallini è un’incisione più pulita.

Marco: A dire il vero personalmente preferisco il secondo disco, soprattutto per quanto riguarda il tipo di registrazione. Come vedi “de gustibus”.

Quali sono i pregi ed i difetti di “4 wizards in your tea”? Quali i pezzi che preferite?

Alberto: Qui non so rispondere. Mi piacciono molto “She Locks”, anche se è un po’ troppo pinkfloydiana… “Trees and blue dwarves”, “You make my dreams”… anche “My happy Times” è bella.

Fabio: Forse il difetto è una mancanza di aggressività nel suono, manca un po’ di “botta”, però ha suoni interessanti, il suono del basso mi piace molto di più sul secondo album, certo anche perché era meglio anche il basso, lo strumento intendo. I miei pezzi preferiti sono: “You Make My Dreams” – “She Locks” – “When my Friend Calls” e “Nemo”.

Marco: “She locks” è il mio pezzo preferito senz’altro… Probabilmente l’unico pezzo che ho scritto del quale vado veramente fiero a distanza di tanti anni. Difetti del disco? Credo che la registrazione sia troppo “pulita”.

Tempo fa, tramite un amico (grazie ancora Roberto Mento!) che era in contatto con Guglielmi, riuscii ad venire in possesso di un demo fantastico di vostre canzoni. Oltre ad una bellissima cover di “Mr. Watchmaker” (Blossom Toes) spiccava la prima versione di quella che sarebbe diventata “My White Angel”. Il titolo era “My white Tricycle” (se non sbaglio). Potete raccontare l’aneddoto?

Alberto: Ah, quella cassetta è un pezzo raro. Dunque, dovemmo cambiare il titolo a quel brano perché in inglese non funzionava; c’era un problema di accento, Trycicle non permetteva di cantare il ritornello così come lo aveva pensato Fabio. Noi non lo sapevamo, ce lo disse Guglielmi. E quindi alla fine si cambiò la parola.

Fabio: Dunque, “My White Tricycle” la scrissi come omaggio alla “My White Bicycle” dei grandissimi Tomorrow, non ricordo poi perché la trasformai in Angel, forse per questioni di metrica? Marco perché m’hai tolto il triciclo?

Marco: “Mr Watchmaker” la suonai accompagnandomi con l’acustica durante una pausa nelle registrazioni di un demo… se ricordo bene… era una canzone che amavo molto.

Incontrate talvolta qualcuno che vi riconosce? Avete rimpianti? Con il senno di poi, cosa fareste e cosa non fareste?

Alberto: Mah, mi sembra di no, nessuno mi riconosce. Certo, quando nomino i Magic Potion qualcuno ancora se li ricorda… ma certo in strada o nei locali non mi accade di essere riconosciuto come bassista dei Magic Potion.
Adesso penso sempre che se avessi studiato a quel tempo musica ora probabilmente saprei molte cose in più di quelle che faticosamente sto imparando in questi ultimi anni.

Fabio: Sì ogni tanto mi capita, ma non al supermercato come le vere star, ma ahimè solo nei negozi di dischi frequentati dai soliti viziosi.

Marco: Qualche rimpianto… ho amici che sono riusciti a fare i musicisti di professione e un po’ li invidio. Tornassi indietro forse cercherei di suonare un tipo di musica più commerciale che mi desse qualche possibilità in più di farmi conoscere.

Siete ancora in contatto fra voi? Cosa fate nella vita? Suonate ancora?



Alberto: Ci siamo visti qualche mese fa, ma era tantissimo che non ci vedevamo e sentivamo tutti e quattro, più Guglielmi. Io sono rimasto in contatto con Marco ma non è che ci frequentiamo regolarmente. Forse c’è in ballo l’ipotesi di ristampa su cd degli Lp, ma è tutto nelle mani di Guglielmi, vedremo. Io suono ancora, anzi forse suono più di quanto facessi negli anni ’80. Ma è tutto cambiato; lo strumento, ora suono il clarinetto, la musica, ora suono jazz e musica balcanica e araba.

Fabio: Marco e Alberto li sento di rado, ultimamente ci siamo rivisti perché pareva che un’etichetta volesse ristampare i nostri album su CD. Max invece lo vedo spesso perché suoniamo insieme, ho riformato i Technicolour Dream con Conti e Max Palego è il batterista, stiamo facendo ed incidendo nuovi brani.



Marco: No… io lavoro nel Ministero per i Beni Culturali nel settore informatico… Strimpello la chitarra acustica a casa qualche volta.

Cosa ascoltate di questi tempi? Rimpiangete gli anni ‘80?

Alberto: Ascolto cose molto diverse rispetto a 15 anni fa. Jazz, musica etnica… l’unica cosa di rock che continuo a seguire e ad ascoltare con piacere è tutta la scena di Canterbury e i suoi derivati; diciamo la scena rock più a contatto con il jazz. Certo ricordo ancora con piacere alcuni concerti dei Magic Potion, i viaggi quando si andava fuori Roma a suonare… anche se in realtà noi non abbiamo suonato molto dal vivo. Nostalgia? Un po’ sì, certo… eravamo più giovani, un po’ più spensierati. Però sono contento di quello che faccio ora. Ti ringrazio tantissimo ancora per il tuo bell’articolo; mi ha fatto molto piacere e in questi giorni mi sono rimesso ad ascoltare i Magic Potion ripensando a quegli anni.

Fabio: Ascolto la musica che ascoltavo prima, tanto Hendrix ed anche Jazz e musicalmente parlando non rimpiango affatto gli anni ‘80, se non per le nostre vicende.

Marco: Musica pop commerciale, generalmente quella che ascoltano i miei figli… Mi piacciono i Coldplay e i Keane.

Alessandro Calzavara


In copertina:  Four Wizards In Your Tea (front cover, Magic Potion, 1988).

Rispondi