OUTSIDER TRADING / Per iniziare (con un omaggio a Roberto Roversi)

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. La proposta/manifesto di Lorenzo Mari per un nuovo approccio critico: OUTSIDER TRADING e Roberto Roversi (pubblicato il 14 settembre 2015).


Premessa, cui segue una proposta di lavoro.

In quanto parte integrante del sistema neoliberista che domina la contemporaneità (e in questo, molto simile a molti altri contesti nazionali, considerati talora come “più civilizzati” o “più barbari”, ma più per una distorsione ottica dovuta alla prospettiva di partenza, che non in virtù di un’analisi vera e propria), l’Italia è un Paese classista, sessista, omofobo, razzista, settentrionalista e sprezzante delle classi subalterne e delle minoranze.
Purché, naturalmente, queste ultime siano prive di una qualche forma di potere economico-politico.

In questo senso, dopo aver fatto l’Italia si è riusciti in qualche modo a fare gli italiani, che sono altrettanto classisti, sessisti, omofobi, razzisti, settentrionalisti, sprezzanti delle classi subalterne e delle minoranze, e chi più ne ha ne metta, se e quando aderiscono – più o meno consapevolmente – a quei discorsi e a quelle forze che nel Paese sono egemonici: accettandoli, elaborandoli, costruendoli, subendoli o anche cercando di combatterli tramite posizioni che sono funzionali, in realtà, al mantenimento dello status quo.

Allo stesso modo si comporta il mundillo della poesia italiana contemporanea, e c’è bisogno di ripeterlo: è classista, sessista, omofobo, razzista, settentrionalista e sprezzante delle classi subalterne e delle minoranze (purché, naturalmente, queste ultime siano prive di una qualche forma di potere economico-politico).

Per non parlar poi di chi scrive, che non si vuole unire al coro delle anime belle, e ammette la complicità nella costruzione di queste formazioni egemoniche sia nel lavoro di scrittura poetica che nell’attività critica.
Altrimenti, non sarei qui a scrivere ciò che scrivo.

Inutile, tuttavia, piangersi addosso. Si veda, ad esempio, il discorso (cui, anche in questo caso, ho preso parte), con il quale si tenta di riportare alla luce la storia del colonialismo italiano, sfatando il mito degli “italiani brava gente”. Spesso, si dà unicamente sfogo a una carica opprimente di senso di colpa cristiano-cattolico, o – usando un termine pesantemente connotato, ma per intenderci – un “terzomondismo” malamente inteso (perché, innanzitutto, esercitato in chiave non analitica), che finisce per disorientare. Il discorso, infatti, si sposta su un piano di più alta moralità, di più brillante scientificità… O di chissà che altro, ma senza smettere, neanche per un istante, di sentirsi in qualche modo superiori.

D’altronde, la superiorità, in qualche modo, è costitutiva dell’idea di tradizione, nelle forme con le quali quest’ultima è spesso invocata nell’ambito della poesia italiana: rari accenni alle tradizioni poetiche in altre lingue, scarso valore attribuito alla traduzioni, santificazione dei soliti nomi di maschi bianchi eterosessuali, immancabilmente borghesi o piccolo-borghesi, etc.
La costruzione del canone poetico, se ha ancora un senso, passa generalmente attraverso queste vie, e porta a un empireo nazionale, dove, per grazia ricevuta, si parla solo italiano (o meglio, un suo gergo precisamente connotato).

Se esistono certamente delle eccezioni, tuttavia (ed è su questo punto, aldilà delle banalità appena esposte, che vorrei insistere) ciò avviene spesso per una questione di outsider trading – commercio socio-simbolico dell’escluso, se si vuole evitare l’anglo-pastiche. Si tratta di un’attività, in fin dei conti, che è buona soltanto a placare le ire di chi si scaglia contro le succitate formazioni egemoniche (ricorrendo spesso a posizioni che sono in realtà funzionali al mantenimento dello status quo), ma, a tutti gli effetti, è una forma di scambio e commercio, piuttosto che una rottura.

Venghino, venghino, signori e signore, al tavolo si gioca, il tavolo non si ribalta mai.

Tale commercio socio-simbolico – dove la parola “commercio” non ha tratti negativi, in partenza – si svolge con un’alacrità ancora maggiore ai confini del campo della tradizione e del canone poetico. In questo caso, l’esclusione non conferisce automaticamente purezza e innocenza ad autori e opere, investendoli, piuttosto, di un commercio che è anch’esso da analizzare e approfondire.

 

Proposta di lavoro, cui segue un esempio.

 

Questa nuova rubrica di Carteggi Letterari è aperta esclusivamente ad articoli di taglio critico, che si concentrino sul commercio che si è fatto e che a tutt’oggi si fa dell’esclusione. Se vi è uno scopo, è quello di articolare l’ormai trito e ritrito commento “ma perché non si parla di…?”, che viene rivolto reattivamente alla critica legata alla tradizione e al canone – nel suo processo di costruzione che continua, nonostante tutti gli stenti e le difficoltà, nella contemporaneità – insieme all’imprescindibile confronto con il textus.

Testo, dunque, come crocevia delle ragioni dell’esclusione e delle rivalutazioni dal e del margine. Autori e autrici come soggetti presi di mira dal discorso egemonico, che è classista, sessista, omofobo, razzista, sprezzante delle classi subalterne e delle minoranze, ma anche come singoli o gruppi di autori maschi, eterosessuali, bianchi, borghesi, etc., che non hanno potuto o voluto rivendicare un rapporto di potere a loro favorevole, diminuendo o azzerando la loro complicità.

Perché sono stati esclusi, escluse? Perché sono stati rivalutati, rivalutate? Le ragioni si trovano nella lettura dei testi o in altri fenomeni, squisitamente extra-letterari?

La collaborazione avviene in una prima fase su invito, per poi essere aperta al pubblico più ampio di Carteggi Letterari.

 

Un esempio, e un omaggio.

 

A tre anni dalla scomparsa, Roberto Roversi rischia oggi di entrare nel novero negli esclusi, dove, a dire il vero, fino ad oggi non ha mai veramente messo piede. La figura del “Roversi monaco di clausura” tratteggiata con qualche livore e ipso facto canonizzata da Pasolini in Poesia in forma di rosa, infatti, non è mai stata del tutto veritiera… almeno fino ad oggi.
Decentrato, più che isolato, e al tempo stesso indiscutibilmente interno alla storia intellettuale e politica del Paese, in un eloquente parallelo con la storia di Bologna, Roversi ha sempre saputo trasformare quello che poteva essere, anche nel suo caso, il commercio socio-simbolico dell’escluso (senza, di nuovo, che nel termine “commercio” siano presenti accezioni negative) in una ragione di grande forza per la sua opera e per il suo gesto intellettuale.

L’iniziativa, esplicitamente posta nel segno e nel solco di Roversi, di Calpestare l’oblio (2010) e l’eccellente lavoro del sito www.robertoroversi.it stanno a lì a dimostrare, in modo sintomatico, che quell’opera – spesso legata a fogli volanti, al ciclostilato, alle piccole riviste, alle riedizioni in ordine sparso – può essere dimenticata e che, per questo, bisogna trovare un qualche antidoto a questo epilogo. Per contro, le forme del lavoro di Roversi, pur nella loro esiguità di circolazione, non erano affatto innocue, come segnalava Gian Carlo Ferretti a proposito delle Descrizioni in atto:

[Il libro] rappresenta un raro esempio di quasi perfetta consonanza, integrazione, reciproca implicazione, tra confezione-veicolazione e testo. […] Basti sottolineare il nesso assai intimo tra la dimensione tutta artigianale della confezione-veicolazione e i significati polemici e critici che vi sono connessi (contro il mercato capitalistico e il pubblico consumistico per una veicolazione e destinazione non mistificatoria ed equivoca); tra le connotazioni automortificatorie e autodissacratorie dell’intera operazione e la carica fortemente autocritica del testo stesso (nei confronti dei privilegi ed equivoci e precarietà della condizione intellettuale); e ancora tra nesso e nesso, per così dire.

Se c’è questo rischio d’oblio, lo si deve anche alle diverse tradizioni che si sono succedute nella lettura, o mis-lettura, dell’opera di Roberto Roversi.
Oblio, ad esempio, sembra essere quello della post-lirica, che, dopo essere ricorsa in massa a Pasolini nella stagione del ritorno della “poesia civile”, ora è sempre più neo-sereniana, allontanandosi, così, in modo duplice da un autore che, invece, ha guardato costantemente all’Italia sepolta sotto la neve senza fare per questo dell’Italia un referente vuoto, e ha esplorato rotture anche più aspre e meno concilianti (nello stesso ricorso a repertori linguistico-letterari che, beninteso, oggi non possono che essere distanti) di quelle di derivazione lombarda.
Il ricordo, invece, è stato talora ambivalente e spesso poco più che funzionale nell’ambito delle scritture di ricerca, spesso ansiose di annettersi autori engagés, “ma con gusto” (ossia con una perizia che potesse evitare, allo stesso tempo, cronachismi o ideologismi), orbitando attorno a una qualità “politica” della scrittura poetica mai attinta (dunque, spesso depotenziata).
Roversi in parallelo a Di Ruscio, per dire.
Vi è il ricordo del cenacolo dei roversiani, infine, centro vitale di acribia filologica e passione umana, che rischia però di svalutarsi quanto più Roversi sarà decentrato, e poco ancora, all’interno della storia della sua Bologna e di una minorità che, tuttavia, non era affatto tale.

Per tutti coloro che non si riuniscono in queste tendenze generali (e sono già tanti, e più competenti del sottoscritto, in materia), una citazione dall’Italia sepolta sotto la neve di Roversi, come apertura della rubrica e omaggio.

 

Vorrei avere molti libri da
leggere. Ancora. Tempo davanti.
Libri con segni sconosciuti,
vecchie tipologie, polverosi
libri trovati nel ripostiglio di casa,
odore di tonaca e di cera davanti a una chiesa,
sull’argine del fiume, sulla
balaustra di un ponte di ferro fra paese e paese –
aspettare un foglio portato dal vento dentro alla stanza.
È più facile che una voce si conservi sotto la neve. 

dalla roversi

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