di Diego Conticello
L’esercizio della ragione denuncia mostri. E per mostri s’intendono le aberrazioni dell’odierna, presunta società civile. Sebastiano Adernò, col suo Per gli anni a venire (Faloppio-Como, Lietocolle 2011) genera mostri di parole poetiche che fronteggiano, senza remora alcuna, tali aberrazioni con lo spirito sferzante che può emanarsi solo da un’acuta sofferenza.
E Adernò è l’ennesimo Ulisse che si muove in questa astrusa modernità con un quid di famelico istinto di sopravvivenza («[…] per guardare, da quell’unica zattera/ le stelle svolgersi come metallo infinito// così iniziò il mio viaggio/ arrivando in tempo per mangiare/ prima di esserlo», Prologo), consapevole che ogni esperire – sia esso vitale o scrittorio – passa sempre per una cruna dolorosa, che sconvolge l’essenza fino alle viscere («abbandona lo spioncino del presupporre/ e sposa l’inguine del creare// […] ricrea la sincope del tuo primo affanno// […] perché è così che si entra, per il sottile/ saltellando in punta su tutte le convinzioni,/ negandoti ad ogni credo che annega/ e percorrendo solo la battigia/ come su una tastiera/ dove per giusta bontà, mosso di un millimetro/ puoi cogliere lo scarto, un diverso tono/ fare il tuo passaggio, piazzare una bomba all’accordo», Precetto). È dunque una poesia che intende destabilizzare la tradizione, se necessario con atti di pura anarchia lessicale che fanno pensare alla surrealtà di Dalì («[…] essere stava come uno stagno,/ più in là dei campi,/ dove un coniglio dava lezioni di meccanica/ sulla perdita di autostima del fulcro/ in cambio di assegni/ che per importo avevano la negazione», La pratica della palude). Siamo di fronte ad un’equilibrista disperato che si aggrappa, con la grazia dell’eufemismo e del paradosso, al filo teso dell’esistenza e – si badi bene – surrealtà non è sinonimo di estraneità, bensì di un più completo dominio ‘sul’ reale, più completo perché intriso di una dose di consapevolezza di gran lunga maggiore rispetto alle quantità oggi in uso. Tant’è che l’alter-ego del poeta finisce per essere un ammodernato povero cristo, un sub-uomo così lontano dai livelli nietzschiani da cercare di procurarsi da solo una morte per auto-crocifissione (leggasi anti-piacere), dagli accenti opposti ma similissimi ad una masturbazione (pseudo-surrogato del piacere). Eppure di Nietzsche il nostro poeta ricalca il linguaggio profetico-oracolare – ricordiamoci di Così parlò Zarathustra – e l’inclinazione alla sentenza definitiva.
Un barocco davvero sui generis quello di Sebastiano Adernò (originario di Noto), che echeggia il funambolismo circense di un altro suo illustre conterraneo, il dimenticato ma altissimo Angelo Maria Ripellino; un barocco non delle forme ampollose, ma resiliente ad un congenito horror vacui («[…] e guardo il pagliaccio/ che tratteggia sopracciglia finte/ alla maschera con cui la vita lo derise// […] il nano rovista nel baule/ la memoria e l’urto della naftalina/ lo tengono come un abito da sposa/ al fondo cristallino di un ricordo», Al circo. E Ripellino in Notizie dal diluvio «Un uomo crepa per il troppo ridere./ Il suo naso staccato cadrà dalla ribalta,/ piomberà nel terriccio l’ingombro abominevole.»).
Nel poemetto eponimo della raccolta, Adernò dipinge un’umanità vilipesa e impantanata nell’assurda congerie della nevrosi post-moderna (e post-traumatica da stress causa ignoranza); immobilizzata da un’alienazione irrefrenabile quanto distruttiva («stabilita la paralisi/ occorrerà amalgamare la testa/ con forti dosi di concetto, capaci/ di addomesticare ogni medusa,/ riportando i suoi repertori/ di serpi e sinusoidi/ su un composto pentagramma di frequenze»). Gli uomini sono ormai ridotti a “idioti narcisi affetti da scogliosi”, mentre si delinea uno scenario apocalittico da fantascienza – pensiamo alla spielbergiana intelligenza artificiale o ai romanzi di Cechov – in cui un siffatto uomo-androide affoga senza infamia e senza lode nel labirinto del mondo («mentre una vibrazione di bassissime frequenze/ s’accanisce sulla membrana delle tempie/ sostituendo la volontà con una clessidra,/ la colonna con un anello che si sbriciola/ per mancanza di credo// […] dove la materialità garantisce/ lo stordimento del concetto/ e l’apertura al trascendente/ incrina al prossimo bello»). Un mondo destrutturato e dominato dalla “schizocrazia progressiva” in cui è possibile ricorrere a stratagemmi pseudo-scientifici al fine di restaurare l’antica e perduta capacità di provare emozioni («il sesso sostituito da un grugno, secoli d’amore contratti/ in una precisa stimolazione elettrica»): ogni allusione all’infangato stivale è puramente non casuale.
Affetto dalla “malattia dell’incanto” il replicante tracciato da Adernò si muove attorno al «perno essenziale e delicatissimo/ attorno a cui ruota/ una tagliola» che falcia gli slanci del pensiero.
Una poesia pensante è invece quella di Sebastiano Adernò che, con questa raccolta, rinnova la trincea dei poeti combattenti con la vanga di una lingua sferzante quanto efficacissima; poeti che, sbattendosene delle torri d’avorio, s’immergono fino al collo nel lacerante pantano dei giorni nostri, uscendone talvolta, infangati sì, ma fieri del proprio scavo razionale e, perché no, anche lirico.