Montage
Insieme alla double red beatlesiana, in quegli scaffali archetipici di cui favoleggia la mia memoria (il retaggio paterno al mio posteriore disadattamento isolazionista), stava anche una frusta (ovvero: brutta copertina e “un” solo vinile) raccolta di successi dei Beach Boys. Nessuno nella tv italiana li aveva ospitati nelle trasmissioni per bambini e, per il mio mangiadischi rosso, non c’erano in casa 45” d’immediato inghiottimento. Fu poi “Voglia di vincere” (“Teen Wolf”, 1985) con Michael J. Fox a darmi lo spunto per associare la graziosa canzoncina “Surfin U.S.A.” (con tanto di Marty J. McFly licantropo che surfa sul tetto di un’automobile) a quel vinile. Ma quella canzone lì proprio non ci stava: fui così costretto, aggredito dalla scarsità e dalla frustrazione d’una botta di culo mancata, a farmi bastare veri capolavori affogati in tonnellate di armonizzazioni vocali, e finii per convincermi che non vi fosse niente di più elevato nel mondo della musica che quegli sdilinquimenti vocali unisonici con altri esseri umani. Una linea vocale può essere bella quanto volete –pensavo- ma raggiunge maestà e profondità solo se altre voci se la contendono da tutti i lati, come su un letto di Procuste armonico. Forse per un po’ credetti che bastasse solo quello per attingere bellezza. A infrangere quel mito furono gli invasivi Neri per Caso, anni dopo. E furono i newyorkesi Left Banke a ridargli corpo. Ma oltre all’edenica condizione di tre voci che cantano come Qui, Quo e Qua, quello straordinario e breve progetto innervava ogni composizione d’un ben di dio strumentale che, se pure alieno dalla complessità classica, le donava una grazia e una nobiltà riconoscibile.
Michael Brown (nato Lookofsky), figlio di Henry Lookofsky, noto violista del giro rinomati-studios ne rivestiva il ruolo di compositore/tiranno, e gli altri tre suonavano e armonizzavano. Basti dire che Michael poteva contare sulla sua carta d’identità diciassette (!) lune al tempo del capolavoro “Walk Away Renee/Pretty Ballerina” (1967, sciattamente titolato accostando i titoli dei singoli di riferimento) e già pensava per sé un futuro à la Brian Wilson (compositore da divano casalingo con gatto persiano sulle ginocchia) e auspicava diaspora per gli altri musicisti, costretti all’umile manovalanza dei live-show. A queste condizioni (unite allo scarso successo dell’lp d’esordio) la band si scisse: Steve Martin (voce), George Cameron (voce, batteria), Steve Finn (voce, basso) proseguirono con il moniker originario sfornando “The Left Banke Too”, piacevole ma incapace di ripetere la leziosa magia del precedente; dal canto suo Michael Brown proseguì con la stessa formula dando vita ai Montage, autori d’un unico disco omonimo (1969) che suona molto più come il reale seguito di “Walk Away Renee/Pretty Ballerina”, riproducendo lo stilema in tutto e per tutto, se non forse per una minore perizia dei vocalizzanti o, detto in altri termini, gravido di vocine mosce che cercano d’essere magniloquenti. Chi erano dunque Bob Steurer (voce), Vance Chapman (voce, batteria), Mike Smyth (chitarra, voce) e Lance Cornelius (basso, voce)? Probabilmente dei session men ma Michael, grondante astio verso i vecchi collaboratori e vagamente goffo in questioni di logica verbale, così ne scrive: “amici, molto più di quelli che avrebbero potuto propriamente realizzare un album”. Cosa aspettarsi, dunque, sotto tutte queste buone stelle?
La risposta è ripartita tra dieci notevoli gemme di baroque’n’roll in puro Left Banke style scritte da Brown con la collaborazione alternata di Bert Sommer e Tom Feher; e se forse una certa quantità di brillantezza vocale è andata complessivamente perduta, tale mancanza non è tale da inficiare una vena compositiva ancora vulcanica e un’arrangiamentalità di primo livello.
Se è possibile, gli arrangiamenti approfondiscono ulteriormente la propria centralità in pezzi come “She’s alone” (che sa un po’ della “She’s leaving home” pepperiana), nell’iniziale, spumeggiante “I shall call her Mary” e, giusto per non farci mancare il confronto tra rivali, nella nuova versione del quinto singolo leftbankiano “Desiree” che perde in “spinta” quanto guadagna in raffinata, lamentosa, contemplazione.
Cosa dire delle deliziose, quasi impercettibili, stonature vocali di Bob Steuer in “Men are building sand”? E dei rinfrescanti vaudeville “An audience with Miss Priscilla Gray” e “Wake up Jimmy”, che sanno di MacCartney di buon umore e pasticcini da tè britannici? E dell’autobiografica, briosa “Grand pianist”?
Michael poi confluì negli Stories e infine nei Beckies, sparpagliando momenti di grande musica ovunque si trovasse. È morto nel Marzo scorso, d’un fulminante attacco cardiaco. Qualcuno pensa che non sia mai esistito.
Alessandro Calzavara
In copertina: Montage (front cover, Montage, 1969).