Parlare della poesia di Charles Simić associandola alle fascinazioni delle scatole, delle pellicole assemblate e dei collage di Joseph Cornell, è scontato almeno quanto associare la poetica di Mark Strand ai lavori di Hopper.
Eppure credo che superando la fascinazione e il dichiarato amore di Simić per l’accattonaggio magico di Cornell – cui ha reso omaggio dedicandogli un intero libro che si apre con la citazione di Gérard de Nerval:
«Io? Inseguo un’immagine, nient’altro»
da cui il titolo il “Cacciatore di immagini”, con cui Simić sin dall’apertura centra e fonda la visionarietà e la magia ossessiva per l’assemblaggio, sul quesito cornelliano
“chissà cosa mai si diranno gli oggetti fra loro?” (J.C.)
quesito, dicevo, che lo assilla ed affascina al punto tale da spingerlo a ri-creare una possibile esistenza a tutto ciò che di frammentato, memoriale, distinto, apparentemente inconciliabile, potesse raccattare per i vicoli e le discariche Newyorkesi, al solo scopo di catturare in una possibile, nuova immagine, una probabilità di conciliazione tra quanto sarebbe andato perduto “senza possibilità di dialogo” (ovvero senza una seconda chance, una seconda opportunità di vita), e la surrealtà vitale al di fuori delle sue “shadow boxes” -;
non ci possa essere pittore più descrittivo di Andrew Wyeth per tradurre in immagini le parole, le sensazioni, gli odori e la quotidianità della poetica di Simić.
[per fare un tuffo nei lavori di Cornell consiglio il seguente sito ]
L’immagine d’apertura che associo a questa disamina sulla poetica di Simić s’intitola “around the corner” ed è appunto di Andrew Wyeth, a seguire troverete invece due scene d’interno, “Masterbedroom” e “Up in the studio“, ma sfido chiunque conosca sia la poetica di Simić che quella di Wyeth a “divertirsi” rintracciando tra i due altre associazioni, sia pure migliori ed efficaci delle tre qui presentate.
Charles Simić rende poesia la trivialità dei gesti coniugali, dei rumori più comuni e degli umori vitali. La meraviglia della quotidianità si fa arte, occasione per una nuova fonte di conoscenza e comprensione, così come per un bambino la fantasia che scaturisce dalla pura osservazione di un mondo ancora tutto da scoprire. L’osservazione analitica di fatti e gesti, attraverso i versi di Simić, conducono in maniera del tutto naturale e spontanea a metafisiche divagazioni che, da una fase empirica e, diremmo, quasi tattile, sfociano in uno stato di attonita meditazione sul significato più “essenziale” e scarno dell’effetto e dell’interazione tra le cose, gli oggetti e l’uomo stesso.
Pareti, muri, colori sembrano avere una vita propria che interagisce empaticamente con un’umanità scarna e routinaria, che non si sofferma ma che passa avanti a se stessa, rincorrendosi in modo “automatico”, più per inerzia che per consapevole ed individuale volontà; rinchiudendo i personaggi dentro un gioco delle parti che appare quasi prestabilito, ineluttabile, nel susseguirsi di ingranaggi che, sia pure nella penombra d’un interno in cui si muovono figure di vecchi amanti, spogli degli ardori e appassiti dei loro stessi fiori, rinnovano la superpresenza delle loro stesse carni negli odori e nei riflessi delle pelli che un improvviso raggio d’alba che penetri la scena attraverso un’anonima tapparella riesce a risvegliare, restituendo un senso arcano alla monotonia dei gesti quotidiani.
“…. Erano le 7 del mattino. / Aspettavi che un raggio di sole / ti scaldasse un poco i piedi gelati, / o che tua moglie entrasse assonnata / con la vestaglia azzurra consunta, / e si chinasse con i capelli sugli occhi / a raccogliere il giornale che ti era scivolato di mano /
con quel titolo e una grande fotografia, / e restasse così, piegata, a leggere / intenta, con la vestaglia che si schiudeva a poco a poco, / con le mammelle pendenti e il pelo scuro / ancora umido di sonno che si scoprivano del tutto, / mentre continuava a leggere con quel sussurro spettrale.”
(C. Simić “Il titolo”, trad. Damiani Abeni)
Ricordi d’infanzia e scenari d’un realismo velato d’immaginifico onirismo si stendono sulla carta in modo narrativo, fotografico e piano, rivelando solo alla fine dell’intera lettura un senso di sgomento segreto ed intimo, che rievoca paure lontane ma sempre vive nell’immaginario adulto ed insonne di un bambino che ha sempre stentato a dormire sonni sereni nell’incubo delle guerre e della precarietà dei suoi fragili giorni.
Hotel Insomnia, Charles Simić
I liked my little hole,
Its window facing a brick wall.
Next door there was a piano.
A few evenings a month
a crippled old man came to play
“My Blue Heaven.”
Mostly, though, it was quiet.
Each room with its spider in heavy overcoat
Catching his fly with a web
Of cigarette smoke and revery.
So dark,
I could not see my face in the shaving mirror.
At 5 A.M. the sound of bare feet upstairs.
The “Gypsy” fortuneteller,
Whose storefront is on the corner,
Going to pee after a night of love.
Once, too, the sound of a child sobbing.
So near it was, I thought
For a moment, I was sobbing myself.
***
Hotel Insomnia
Mi piaceva il mio piccolo pertugio
e la sua finestra che guardava un muro di mattoni.
Nella stanza accanto c’era un piano.
Un paio di sere al mese
un vecchio sgangherato ci veniva a suonare
“My Blue Heaven”.
Il più delle volte, però, tutto era tranquillo.
Ogni camera aveva il suo ragno in pastrano pesante
intento a catturare la sua mosca nella rete
tra fumo di sigarette e fantasie.
Era così buio
che non riuscivo a vedermi nello specchio del lavandino.
Alle 5 del mattino il passo dei piedi nudi al piano di sopra.
Lo “Zingaro” che dice la fortuna,
al negozio giù all’angolo,
va a pisciare dopo una notte d’amore.
Una volta ancora, il pianto di un bambino singhiozzante.
Era così vicino, che per un momento
pensai, che a singhiozzare fossi io.
Il disincanto mantiene il suo fascino e la sua aura di mistero nella rispettosa e silenziosa osservazione della natura e dei suoi antichi presagi, inscenati ora dal volo degli uccelli all’orizzonte, ora da un tramonto sanguigno che colora le pietre di un sentiero in un affresco di tinte forti e ricche di contrasti, che delinea i pochi elementi esterni che fanno da sfondo alle vicende degli attori tragici di una quotidiana commedia, che irrimediabilmente si consuma logorandosi entro quattro mura.
Così, mentre il tempo dell’amore inizia, si consuma e finisce nella durata d’un soffio di candela, inscatolato in ritmi e spazi costruiti e fissati per sé dall’uomo stesso, fuori – inspiegabilmente ed incurantemente – tutto scorre nel succedersi di buio e luce.
***
Clouds Gathering, Charles Simić
It seemed the kind of life we wanted.
Wild strawberries and cream in the morning.
Sunlight in every room.
The two of us walking by the sea naked.
Some evenings, however, we found ourselves
Unsure of what comes next.
Like tragic actors in a theater on fire,
With birds circling over our heads,
The dark pines strangely still,
Each rock we stepped on bloodied by the sunset.
We were back on our terrace sipping wine.
Why always this hint of an unhappy ending?
Clouds of almost human appearance
Gathering on the horizon, but the rest lovely
With the air so mild and the sea untroubled.
The night suddenly upon us, a starless night.
You lighting a candle, carrying it naked
Into our bedroom and blowing it out quickly.
The dark pines and grasses strangely still.
*
Si ammassavano le nuvole
Sembrava il tipo di vita che volevamo.
Fragole di bosco e panna al mattino.
La luce del sole in ogni stanza.
Noi a camminare nudi sulla riva.
Qualche sera, però, ci siamo trovati
incerti sul domani.
Come attori tragici d’un teatro in fiamme,
con gli uccelli a ruotare in cerchio sulle nostre teste,
e i pini scuri inspiegabilmente fermi,
abbiamo calpestato ogni roccia insanguinata dal tramonto.
E poi di nuovo sul nostro terrazzo a sorseggiare vino.
Perché sempre questo senso di tragico finire?
Nuvole dalle sembianze quasi umane si ammassavano
all’orizzonte, mentre ogni cosa era piacevole
nell’aria mite e il mare sereno.
Quando la notte ci sorprese, una notte senza stelle.
Tu accendevi una candela, nuda la portavi
in camera da letto e in fretta la spegnevi,
mentre ancora lì, inspiegabilmente fermi, i pini scuri e l’erba.
***
Apprezzo molto quest’accostamento tra il poeta e il pittore che mi sembra motivato e convincente; grazie per molti motivi, tra cui quello di avermi fatto conoscere Wyeth.
grazie a te, Antonio, di cuore