Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 16) Philip Auclair

Philip Auclair

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Non vi sarebbe alcun motivo d’essere curiosi di musica se potesse un giorno esserne scritta una Storia. Se qualcuno potesse aver sempre avuto la risposta perfetta alla nostra domanda perfetta. 

Basterebbe infine sapere a chi ben chiedere ciò ch’è da chiedere. 

E invece non vogliamo – proprio tutte le volte – che si sappia. Non vogliamo spesso neppur essere curiosi. Ancora prima: non vogliamo. Ciò che dev’essere sia, e amen.

Talvolta poi non vogliamo che si senta allo stesso modo in più d’uno. Non vogliamo neppure condividere lo stesso campo di gioco, in modo da non correre mai il pericolo d’essere spodestati dal nostro rintronamento solipsistico. Fortunatamente non è il mio caso. I miei vermi non amano i segreti.
La musica, poi, è sempre più sostanziale di chi s’accinge a parlarne; figuriamoci poi delle parole che userà. Ed è sostanziale perché non finge d’esserlo.

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C’è un margine di noi che rimane appiccicato al nome pubblico della nostra più segreta inclinazione; con un riflesso imponderato ci giriamo come se sentissimo chiamare il nostro nome.
Non potrei mai sentire, ad esempio, il nome di Philip Auclair senza trasalire, senza che una strana costellazione di sensi dentro di me non m’impedisse di volerne essere custode e divulgatore, adoratore contemporaneamente esoterico ed essoterico.
Ho ancora su “Appointment with Venus”, e ora come tutte le volte che lo tiro fuori, m’appare conditio sine qua non della mia crescita d’ascoltatore. Avrei potuto scegliere altri album nell’eccezionale carnet di colui che assunse il nome d’un re già stato per entrare alla corte di Mike Alway (e della sua él). “Sunshine” (1995) ad esempio, che in alcuni episodi tange l’irresistibilità fenomenica; o il più assennato e marmoreo “An Unknown Spring” (2007). Ma poi no: le Hidden Gems aprono solo qualche finestra alla mente; il portone principale è quello del mediastino; non solo il mio, che l’informavo d’un solenne imprinting dandistico, ma quello del normanno Philip, ch’esordiva da solista nella lingua dell’amato Ray Davies e, presumibilmente, lasciava predominare un meraviglioso, e ingenuo, entusiasmo. L’orecchio e il gusto erano già sopraffini.

Insomma, ho le solite parole per parlare d’un disco che adoro. E presto vengono a noia pure a me, soprattutto nel timore che le uniche che andrebbero espresse sulla musica son quelle che ne seguono la melodia: l’unica sinestesia tollerabile dell’ineffabile.
Ma il perfetto basso profilo di questi suoni condotti da doti compositive “alte”; la densa ed elegante lievità d’un Brian Wilson presente a se stesso; gli arrangiamenti forbiti; la meticolosa compassatezza d’un autore che trova nella chanson la sua forma ideale d’espressione; la quintessenziale flânerie; la melodia suggerita e mai affondata; il tocco maligno del genio che si polverizza in quattordici tracce – una più incantevole dell’altra (compresa l’iniziale minimalizzata cover di Claude Nougaro) – tanto basterebbe per fare una volta per sempre di questo disco il motivo migliore per sostenere l’assoluta grandezza di Louis Philippe. Ma se entrate da questa porta, avrete molte altre stanze incredibili da visitare. Sempre che non preferiate assorbire quel che passa la radio.

Alessandro Calzavara


In copertina: Appointment with Venus (front cover, Philip Auclair, 1986).

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