Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 7) The Shins

The Shins

The Shins foto

Nessuno di noi ha mai del tutto rinunciato a elaborare i suoi piani per un mondo migliore.
E tuttavia svariate sono le vie che conducono alla medesima ipostasi dell’aurea aetas, e non tutte nobilissime: la vita celeste del cristianesimo nel campo della fede; l’escapismo chimico della tossicodipendenza; la pedissequa imitazione di modelli che hanno già tracciato la via nell’arte.
Oppure il non raro focalizzarsi della musica rock su niente che abbia a che vedere con la mia vita, e che valse al nugale dj l’impiccagione. Eppure come non confessare il ripresentarsi di quel nascosto brivido archetipico che ci coglie quando il musico di turno trova l’ennesima convincente maniera per ribadirci che l’universo gira attorno al fortuito incontro di ragazzo Y e ragazza X, e che tutte le prevedibili complicazioni che ne scaturiranno costituiranno per le generazioni lontane una storia con la s maiuscola, la storia grande? Questo per quanto riguarda un mondo “migliore”, la cui visione –diciamolo- non è granché resistente, e sempre feralmente s’ubica a un tiro di schioppo dalla prima frustrazione che ci conquide. Ma che succede quando il mondo è semplicemente “invertito”?

Vien fuori un intruglio pazzesco – che ormonizza uno dei virgulti più robusti del sottobosco americano degli ultimi 15 anni.
Spunta dall’humus del New Mexico, ma è zeppo di California (in fondo c’è solo l’Arizona di mezzo); viene dal 2001 ma pullula di ‘66, ‘67, ‘68 e ‘69 (vecchio sogno dorato); ha un appeal lo-fi ma invece c’è; c’è molto, diventa onnipresente, è pieno di parole, ma la forza che le aggrega non è il solito aristotelico principio di non contraddizione. “Oh, inverted world” (con accento su “oh”) è un mirabile pastiche surrealista immerso in una splendida sintesi d’ispirazione vintage e feeling moderno, d’organetti cosmici e chitarre disamplificate, di liaison psichedeliche e strascichi beachboysiani. La più degna alternative-rockizzazione di questa rubrica dedicata ai dischi su cui vogliamo scommettere, e a suffragio dei quali contribuiamo alla gloria postuma.

Non occorre tergiversare troppo: sarebbe sufficiente il primo pezzo: “Caring is creepy”, una delle vette, a convincerci che gli Shins di James Mercer sono un sapidissimo gruppo che scrive canzoni ipercaloriche e sa arrangiarle nella più nutriente delle maniere. Questo è art rock nella sua più pura essenza; sentite la sghembitudine infliggere obliquizzazioni acide, sentite come il massimo risultato è attinto col minimo sforzo, sentite come siete tirati fuori e re-immersi -secondo dopo secondo- in due dimensioni sonore contemporanee (e in una delle due le spiagge sono più pulite).
E sentite come scivolate a meraviglia lungo le sue superbe undici tracce (scivolate voi, non il gruppo, giammai): che meraviglia il ritornello di “Girl inform me” che giunge ancora prima che la strofa possa estrinsecarsi, la stessa meraviglia che mi prende quando l’organetto compulsivo di “Girl on the wing” (a una S dalla gioia d’un balocco) s’intreccia con quei coretti liofilizzati che tutti insieme sfociano nella gaiezza assoluta del ritornello. Questo per (non) tacere di quella fulgida gemma acustico/donovaniana che è “New slang” o di quella suggestiva scheggia d’altroquando (un altroquando che ha numero civico 154) che è “Your algebra”.
Sembra male non citare gli altri episodi, ma son certo di aver scelto seguendo il bizzoso modo del gusto personale.
Non per il disco, che non potrete scegliere (ché vi troverà lui), ma per i pezzi.
Con la sua stordente evidenza di grandezza secondaria “Oh, inverted world” già spinge la mia mano sul braciere di un’ardimentosa scommessa. Cose che capitano, in un mondo invertito.

Itulas.

Alessandro Calzavara


In copertina: Oh, Inverted World (front cover, The Shins).

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