di Diego Conticello
Dopo Argéman le traiettorie della poesia di Fabio Pusterla si fanno in questa plaquette (Nella luce e nell’asprezza. Torino, Edizioni Coup d’idée 2015) ancora più “aspre” e “illuminanti”, ma con un percorso per certi versi implosivo che devia la focalizzazione prospettica da ‘identitaria’ a ‘interiore’, frutto di un esercizio ormai quasi “naturale” di scavo, nel tentativo di estrarre luce (senso?) dall’asprezza del quotidiano prima che anche la parola stessa – leggasi volontà di testimonianza – scompaia nel bianco delle pagine. D’altronde il valore principale della parola nella poesia di Pusterla è quello di fungere da estremo appiglio di resilienza nel dissolversi della speranza.
Due sono a mio avviso i principali significanti conduttori che da Corpo stellare ad Argéman dominano il dettato della poesia pusterliana e a questi corrispondono altrettante figure-allegoria: la stella e il ghiaccio. Esse – dicevo – rappresentano quanto di spaesante, di “raggelante”, di aberrante pertiene ancora ad’una umanità ormai quasi post-umana che “cammina su margini ignorabili”; due immagini dunque profondamente estreme cha hanno come portato quanto in noi emerge in termini di lontananza, pericolo di perdizione, dissolvimento (dei valori, di una presunta eticità, dell’esistenza stessa?).
Tuttavia la parola è sempre lì a descriverle/resistervi, ma non per scacciarne l’aura dolorosa quanto per testimoniarne l’inscindibilità dalla condizione umana. La parola dunque è il guardiano testardo contro le mancanze, il “fiore che spunta al margine”, vita che resiste prodigiosa alle sferzate del mondo, nel progressivo “raggelamento” di quanto ci circonda sia in vicinanza (ghiacciai) che in lontananza (galassie, stelle) lacerto di sedimenti o polvere cosmica di quanto ancora in noi e fuori di noi non è perduto nonostante lo sfacelo.
***
Di seguito una selezione di passi o testi del volume:
Nel silenzio. Lamento di F.K.
[…] Tacciono le balene
negli abissi, e le felci,
mute stanno le merci
nude, e le ossa e le vene.
Le pietre nere
(III)
Inesistere: non è affatto male.
Si cammina su margini ignorabili
senza più nulla da perdere, imperfetti.
Appare meglio la luce e ti assale
più di sorpresa il fulgore degli oggetti
abbandonati, dei fiori negli orti sospesi, nei vasi.
(VI)
Queste pietre risalgono al nord
un nord tenace e deserto delle ere
che precedono tutto, ogni vita elementare.
Torsioni e torture senza grida
slogamenti della crosta della terra
movimenti del magma. Costellazioni nere.
Qualcosa, se le guardi, in te consuona.
Un altro nord, di non sopito gelo.
Bruciate, lande senza parola.
Stella bassa
Bisogna essere molto lontani
scendere da alture di scisto
in certe sere guardare […]
Nebulose oscure
Non abbagliavano, tutti quei ciottoli candidi?
Abbagliavano, abbagliavano,
sfinite uova di luce lungo il mare.
Eppure fra di loro i pochi neri,
lucidi d’acqua, e chiusi: erano loro ad attrarre.
Rosi dall’onda, lisci e cupi
occhi sgranati, pupille
intense prive d’iride.
Erano piccole
screpolature del giorno, nebulose
oscure, dove si dice nascano le stelle,
dentro il freddo che non possiamo immaginare.
Zone inquiete dell’essere.
«Am Gletscherrand»
(Lezione del ghiaccio)
(III)
[…] Si risale con fatica, quassù, si procede
a tentoni non di rado disperando:
quale gioia? Anche i rumori: schiocchi,
tonfi, frizioni di fratture. La musica ritratta,
che smagrisce e si cela; speranza in fuga.
L’ora del tempo è cupa, la stagione
quasi odiosa. Ma sotto, nel segreto,
c’è una voce che pulsa, non muore.
[…] Ritorni, ed è un paesaggio di rovine.
Perché nulla rimane e tutto muta, scompare
o si trasforma.
[…] E’ la vita
che transita è il vuoto
che accende la coscienza dell’esistere?
Ablazioni, promesse.
[…] Sempre in bilico, sempre minacciata
la grazia.
[…] Nella luce e nell’asprezza
del ghiaccio. Sul cammino
invisibile, andando.
(IV)
Là sotto, nel profondo
raggelato – centinaia e centinaia
di metri, si dice, o chilometri – una pressione
inaudita, che comprime e cristallizza,
forse serba nel ghiaccio
la traccia stilizzata di qualcosa,
la sagoma perfetta dell’esistere imperfetto
caduto, depositato, dimenticato
nel corso del viaggio,
e come lasciato indietro. Le vite
soltanto sfiorate, o promesse
e negate, le vite non nate a pienezza,
simili a stelle mancate qui sepolte,
nel compatto deposito di senso
abbandonato. Nel linguaggio
che giace.
Capita che una frana o un movimento
casuale delle faglie,
il crollo di un seracco o quello struggersi
che fa increspare i ghiacci,
restituisca immagini, perturbi.
Come quegli alpinisti
che si trovano davanti i genitori
calcinati nell’anno e nell’ora della morte
e più giovani di loro,
terribili e splendenti.