I testi delle poesie di Sylvia Plath provengono da Tutte le poesie (Milano, Mondadori, 2013). La traduzione di Anna Ravano è stata naturalmente un punto di partenza imprescindibile (Marco Malvestio).
Conversation among the ruins (1956)
Through portico of my elegant house you stalk
with your wild furies, disturbing garlands of fruit
and the fabulous lutes and peacocks, rending the net
of all decorum which holds the whirlwind back.
Now, rich order of walls is fallen; rooks croak
above the appalling ruin; in bleak light
of your stormy eye, magic takes flight
like a daunted witch, quitting castle when real days break.
Fractured pillars frame prospects of rock;
while you stand heroic in coat and tie, I sit
composed in Grecian tunic and psyche-knot,
rooted to your black look, the play turned tragic:
which such blight wrought on our bankrupt estate,
what ceremony of words can patch the havoc?
Conversazione tra le rovine (1956)
Irrompi nel mio portico elegante
con le tue furie selvagge, turbando
le ghirlande di frutta e i favolosi
liuti ed i pavoni, lacerando
la rete di decoro che trattiene l’uragano.
Adesso un ricco ordine di mura
è crollato; e sulle spaventose
rovine i corvi gracchiano; alla luce
del tuo occhio tempestoso la magia
fugge come una strega dal castello
al sorgere del sole.
Panorami di roccia tra resti di colonne;
e mentre stai ritto, eroico nel cappotto
e nella cravatta, io siedo composta,
i capelli raccolti come Psiche,
in tunica, piantata nel tuo nero
sguardo, la commedia
volta in tragedia: con questo sfacelo
riversatosi sulle nostre proprietà
quale mai cerimonia di parole
potrà porre rimedio al disastro?
Winter landscape, with rooks (1956)
Water in the millrace, through a sluice of stone,
plunges headlong into that black pond
where, absurd and out-of-season, a single swan
floats chaste as snow, taunting the clouded mind
which hungers to haul the white reflection down.
The austere sun descends above the fen,
an orange cyclops-eye, scorning to look
longer on this landscape of chagrin;
feathered dark in thought, I stalk like a rook,
brooding as the winter night comes on.
Last summer’s reeds are all engraved in ice
as is your image in my eye; dry frost
glazes the window of my hurt; what solace
can be struck from rock to make heart’s waste
grow green again? Who’d walk in this bleak place?
Paesaggio invernale con corvi (1956)
L’acqua del canale, da una chiusa in pietra,
si getta dentro quello stagno nero
dove, fuori stagione, assurdamente,
un cigno solitario, casto come neve,
galleggia, dileggio per la mente
opaca, che brama di trascinarne
a fondo il riflesso bianco.
Il sole, l’occhio arancio di un ciclope,
austero, scende dietro l’acquitrino,
non si degna di ammirare più a lungo
una simile desolazione;
nere piume di pensieri, mi aggiro come un corvo,
tetra, nella tenebra che cala
invernale.
I giunchi dell’estate scorsa sono fissi
nel ghiaccio come la figura
di te nel mio occhio; arido gelo
imbrina la finestra della mia ferita;
che conforto verrà dalla roccia
se la percuoteremo, perché si rinverdisca
il deserto del cuore?
Chi vorrebbe
addentrarsi in questo squallore?
Green rock, winthrop bay (1958)
No lame excuses can gloss over
barge-tar clotted at the tide-line, the wrecked pier.
I should have known better.
Fifteen years between me and the bay
profited memory, but did away with the old scenery
and patched this shoddy
makeshift of a view to quit
my promise of an idyll. The blue’s worn out:
it’s a niggard estate,
inimical now. The great green rock
we gave good use as ship and house is black
with tarry muck
and periwinkles, shrunk to common
size. The cries of scavenging gulls sound thin
in the traffic of planes
from Logan Airport opposite.
Gulls circle gray under shadow of a steelier flight.
Loss cancels profit.
Unless you do this tawdry harbor
a service and ignore it, I go a liar
gilding what’s eyesore,
or must take loophole and blame time
for the rock’s dwarfed lump, for the drabbled scum,
for a churlish welcome.
Scoglio verde, baia di Winthrop (1958)
Non ci sono bugie per nascondere
i grumi di catrame sulla linea
di marea, il pontile in rovina.
Dovevo immaginarlo.
I quindici anni di distanza
tra me e la baia hanno arricchito la memoria,
ma cancellato lo scenario antico
e messa insieme questa vista squallida
e artefatta che termina la mia
promessa di un idillio.
L’azzurro è consunto. È una proprietà
meschina e nemica, ora. Il grande scoglio
verde che ci fece così spesso
da nave e da casa
è nero di catrame appiccicoso
e di molluschi, ridotto a dimensioni
ordinarie. Le grida dei gabbiani
famelici risuonano flebili
nel viavai di aeroplani
del Logan Airport sulla riva opposta.
I gabbiano roteano grigi
sotto l’ombra di un volo più metallico.
La perdita annulla il profitto.
A meno di non fare a questo posto sordido
un favore ignorandolo, potrei
mentire e indorare il suo squallore
o cavarmela con l’incolpare il tempo
per lo scoglio rimpicciolito, per le spume
sudice, per la maleducazione nell’accogliermi.
Waking In Winter (1960)
I can taste the tin of the sky – the real tin thing.
Winter dawn is the color of metal,
the trees stiffen into place like burnt nerves.
All night I have dreamed of destruction, annihilations –
an assembly-line of cut throats, and you and I
inching off in the gray Chevrolet, drinking the green
poison of stilled lawns, the little clapboard gravestones,
Noiseless, on rubber wheels, on the way to the sea resort.
How the balconies echoed! How the sun lit up
the skulls, the unbuckled bones facing the view!
Space! Space! The bed linen was giving out entirely.
Cot legs melted in terrible attitudes, and the nurses –
each nurse patched her soul to a wound and disappeared.
The deathly guests had not been satisfied
with the rooms, or the smiles, or the beautiful rubber plants,
or the sea, hushing their peeled sense like Old Mother Morphia.
Svegliarsi in inverno (1960)
Il cielo è di stagno, ne sento il gusto in bocca: stagno vero.
L’alba d’inverno è colore del metallo,
gli alberi rigidi come nervi bruciati.
Ho sognato per tutta la notte
distruzione, annichilimento –
gole tagliate in catene di montaggio,
e io e te che ce ne andavamo lenti
sull’automobile grigia, sorseggiando
il verde veleno dei prati muti,
le lapidi di legno, non un suono,
su pneumatici di gomma
diretti alla stazione balneare.
Che echi dai balconi! E il sole, come
illuminava i teschi, le ossa sfatte
di fronte al panorama. Spazio! Spazio!
Le lenzuola tiravano gli ultimi,
le gambe del letto si scioglievano
in terribili posture, e le infermiere –
ogni infermiera bendava la sua anima
a una ferita, e scompariva.
Gli ospiti mortali non erano rimasti
soddisfatti delle stanze, dei sorrisi,
delle piante di plastica o del mare
che quietava i loro sensi scorticati
come Mamma Morfina.
I am Vertical (1961)
But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
sucking up minerals and motherly love
so that each March I may gleam into leaf,
nor am I the beauty of a garden bed
attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
and a flower-head not tall, but more startling,
and I want the one’s longevity and the other’s daring.
Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
the trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them –
thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
and I shall be useful when I lie down finally:
then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.
Sono verticale (1961)
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero, non ho radici
che succhiano dal suolo minerali
e amore materno
per poter germogliare ogni marzo,
né sono la bellezza dell’aiuola
che attrae la sua parte di stupore,
splendidamente dipinta,
ignara di dover sfiorire presto.
Al mio confronto, un albero è immortale,
e benché non più alta, la corolla
di un fiore è di me più sorprendente;
ed io vorrei avere
l’altezza del primo, l’audacia dell’altro.
Stasera, nella luce infinitesima
delle stelle, alberi e fiori
spargono i loro profumi.
Cammino tra loro, e non mi notano.
Penso talvolta che durante il sonno
devo davvero assomigliare loro –
i pensieri fattisi opachi.
Stare sdraiata mi è più che naturale.
Io e il cielo parliamo apertamente,
allora, e infine sarò utile
distesa per sempre:
gli alberi mi toccheranno, per una volta, e i fiori avranno tempo per me.
Winter Trees (1962)
The wet dawn inks are doing their blue dissolve.
On their blotter of fog the trees
seem a botanical drawing.
Memories growing, ring on ring,
a series of weddings.
Knowing neither abortions nor bitchery,
truer than women,
they seed so effortlessly!
Tasting the winds, that are footless,
waist-deep in history –
full of wings, otherworldliness.
In this, they are Ledas.
O mother of leaves and sweetness
who are these pietas?
The shadows of ringdoves chanting, but chasing nothing.
Alberi d’inverno (1962)
Gli umidi inchiostri dell’alba
dissolvono in azzurro.
Sulla carta assorbente della nebbia
gli alberi sono un disegno botanico –
ricordi che crescono, di anello in anello,
una seria di matrimoni.
Ignari di aborti e cattiverie,
più sinceri delle donne,
come si moltiplicano senza sforzo!
Assaporano i venti che si librano,
piantati fino ai fianchi nella Storia –
pieni di ali, di un altro mondo.
In questo, sono Leda.
O madre di foglie e di dolcezza,
chi sono queste pietà?
Le ombre dei colombi selvatici
intonano un canto che non lenisce nulla.
Sheep In Fog (1963)
The hills step off into whiteness.
People or stars
regard me sadly, I disappoint them.
The train leaves a line of Breath,
O slow
horse the colour of rust,
hooves, dolorous bells –
all morning the
morning has been blackening,
a flower left out.
My bones hold a stillness, the far
fields melt my heart.
They threaten
to let me through to a heaven
starless and fatherless, a dark water.
Pecore nella nebbia (1963)
Le colline digradano nel bianco.
Persone o stelle
mi guardano tristi, le deludo.
Il treno lascia una linea di fiato.
O tu lento
cavallo colore della ruggine,
zoccoli, campane dolorose –
è tutta la mattina che la
mattina si va facendo scura,
un fiore rimasto fuori. Le mie ossa
racchiudono un’immobilità, lontani
i campi mi sciolgono il cuore,
minacciano
di ammettermi in un paradiso
privo di stelle, di padre, un’acqua scura.
Marco Malvestio