Le parole della fine – a cura di Laura Liberale e Giovanna Zulian – K’ung-fu-tzu (Confucio)

LE PAROLE DELLA FINE

K’ung-fu-tzu (Confucio), di Claude Aveline
(traduzione di Laura Liberale)

 

La prima religione della prima civiltà del mondo è una filosofia morale e politica. Essa crede al Cielo, Essere supremo, alla Terra, ai loro spiriti e ai loro geni, ma, quando si chiedeva a K’ung-fu-tzu, il Saggio Maestro K’ung, che i nostri missionari hanno chiamato Confucio, quale fosse il modo migliore di servirli, egli rispondeva: “Quando non si è ancora nella condizione di servire gli uomini, come si potrebbe servire spiriti e geni?”. E quando gli si domandava che cosa fosse la morte: “Quando non si sa ancora cos’è la vita, come si potrebbe conoscere la morte?”. O anche: “Aspetta la tua morte: non sarà allora troppo tardi”. E diceva pure, duemilacinquecento anni prima della nuova Cina: “Quel che il Cielo vede e sente non è che ciò che il popolo vede e sente. Quel che il popolo giudica degno di ricompensa e di punizione è ciò che il Cielo vuole ricompensare e punire. C’è una comunicazione intima tra il Cielo e il popolo. Che quanti governano i popoli siano dunque attenti e riservati”.
Nato povero, perennemente dedito allo studio, gravato a ventidue anni di un’importante carica pubblica nel piccolo regno di Lu, sua patria, egli scoprì a un tempo la miseria degli uomini e la responsabilità dei prìncipi. Si risolse a chiarire entrambe con una dottrina “semplice e comprensibile”, secondo le sue stesse parole, e che più tardi Chuang-tzu riassumerà così: “Possedere la rettitudine del cuore e amare il prossimo come se stessi” (traduzione strettamente letterale d’un testo anteriore di almeno tre secoli ai Vangeli).
K’ung-tzu lasciò la sua carica e se ne andò di regno in regno attraverso l’Impero, accolto dai sovrani con la più grande deferenza. Ciascuno di loro si sforzò di trattenerlo; quello di Lu arrivò perfino a fare di lui, intorno ai cinquant’anni, un ministro della giustizia; ma nessuno volle personalmente imporsi le regole che, secondo K’ung-tzu, sarebbero bastate a diffondere, in meno di una generazione, “la virtù dell’umanità”. Un numero via via crescente di discepoli tra la gioventù povera e ricca − ne ebbe tremila in vecchiaia − non lo consolò dei fallimenti. Avendo perduto la moglie, l’unico figlio e i due discepoli preferiti, concluse la sua vita come l’aveva cominciata: con lo studio. Revisionò l’antico Shujing, il Libro per eccellenza. E, rispondendo ai discepoli come Socrate parlerà ai suoi, compose, senza scriverne una riga, i suoi Quattro Libri che, più di quello di Lao-tzu, suo avversario, formarono la base indistruttibile della saggezza cinese.
La leggenda aveva ben poca presa su una biografia simile. Dovette accontentarsi di far da cornice. Il sovrannaturale non vi appare che prima della nascita e della morte.
Seconda moglie, forse rimasta vergine, di un comandante settuagenario, la giovane Cheng-tsai − che significa “Lì è la Prova” − si era segretamente inerpicata sul monte Ni per chiedere al Cielo un figlio. Alberi e piante si erano scostati davanti a lei. Aveva sentito delle voci risponderle che il suo desiderio sarebbe stato esaudito, che quel bambino sarebbe diventato un saggio e che lei avrebbe dovuto metterlo al mondo in un gelso cavo. L’albero cavo, dove l’acqua feconda può essere raccolta, gioca qui un grande ruolo: la cima del monte Ni formava una conca e la sommità del cranio di K’ung-tzu mostrerà la stessa depressione. Durante la gravidanza, Cheng-tsai vide in sogno dei personaggi simboleggianti gli elementi e accompagnati da un liocorno. Essi s’inginocchiarono ai suoi piedi e suppongo che sia stato il liocorno a sputare una tavoletta di giada recante la seguente profezia: “Il figlio della virtù dell’Acqua succederà ai decadenti Zhou e sarà un re senza corona”. Poiché nell’anno 551 a.C., la dinastia degli Zhou stava per finire di regnare sulla Cina. Cheng-tsai volle attaccare un nastro al corno dell’animale portafortuna, ma quello svanì all’istante. La leggenda lo fa riapparire quando K’ung-tzu ebbe superato i settant’anni. Nel corso di una partita di caccia, l’auriga di un carro catturò una bestia che nessuno aveva mai visto. La si portò al cospetto di K’ung-tzu, che riconobbe subito il liocorno e comprese che la sua fine era imminente.
Tale consapevolezza giunse in maniera meno prodigiosa. Nel 479 o 478, assai provato dal calore estivo, accogliendo il discepolo Zi-gong sulla soglia di casa, gli disse: “O Zi-gong, perché vieni così tardi?”. E gli spiegò che, la notte precedente, aveva fatto un sogno. Per comprenderne il senso, occorre sapere che sotto la dinastia Xia, la più antica, i morti erano esposti nelle loro case come se ne fossero ancora i padroni, in cima alla scala dell’est, che conduceva al salone; sotto la recente dinastia Zhou, essi venivano esposti come se fossero diventati degli ospiti, in cima alla scala dell’ovest; ma sotto gli Yin, una delle dinastie intermedie, essi erano posti tra le colonne che separavano le scale. “Ho sognato”, disse K’ung-tzu, “di essere seduto tra le due colonne, con delle offerte davanti a me”. Ora, io discendo dagli Yin. Sto sicuramente per morire. Ed è un bene, poiché in tutto l’universo non c’è un principe capace di prendermi come maestro”.
Si mise a camminare in lungo e in largo, le mani incrociate sulla schiena, il bastone trascinato dietro di sé. E cantò, gemente:

Il monte Tai crolla,
la trave maestra si spezza,
il Saggio sta per morire come una pianta avvizzita!
 
Rientrò in casa e si sedette davanti alla porta. Zi-gong rispose: “Se il monte Tai crolla, in chi potrò riporre la mia speranza? Se la trave maestra si spezza, se il Saggio deve morire, chi potremo imitare? Il Maestro è senza dubbio assai ammalato”.
Poco dopo, Zi-gong gli inviò un servitore come ministro (si chiamava così l’intendente principale delle alte personalità). K’ung-tzu disse: “Già da molto tempo, la condotta di Zi-gong si è fatta irragionevole. Io non ho ministri e lui vuole che finga di averne uno. Chi ingannerei? Il Cielo? Piuttosto che alle mani di un ministro, avrei preferito affidare la mia vita a quelle dei miei discepoli. Non m’importava d’essere messo solennemente sotto terra, ma non avrei proprio voluto essere abbandonato sul bordo della strada!”.
La sua solitudine non durò. Zi-gong − o un altro Zi, Zi-lu, a meno che non siano due nomi per la stessa persona − tornò da lui. Si legge nel Lunyu: “Zi-lu gli domandò di concedere ai discepoli d’indirizzare le loro preghiere per lui agli spiriti e ai geni”. Il Filosofo chiese: “È opportuno?”. Zi rispose con rispetto: “È opportuno. È scritto nel libro intitolato Louï[1]: Indirizzate le vostre preghiere agli spiriti e ai geni del Cielo e della Terra“. Il Filosofo disse: “La mia preghiera sarà stata la mia vita”.
L’aveva riassunta poco prima in questi termini: “All’età di quindici anni, il mio spirito era incessantemente intento a studiare; a trent’anni, ho aderito a dei princìpi solidi e fissi; a quarant’anni, non avevo più né dubbi né esitazioni; a cinquant’anni, conoscevo la legge del Cielo, ovvero la legge costitutiva che il Cielo ha concesso a ciascun essere della natura per adempiere regolarmente il suo destino; a sessant’anni, capivo facilmente le cause degli eventi; a settanta, esaudivo i desideri del mio cuore, ma senza oltrepassare la misura”.
Ne aveva settantatré quando morì, “nel sedicesimo anno del re Ai-gong, alla quarta luna, il giorno del serpente-bue”. I discepoli passarono tre anni intorno alla sua tomba, vi costruirono una città, vi piantarono una foresta. Nel corso dei secoli, gli imperatori, venerandone memoria e opera, gli accordarono il posto d’onore nei Templi della Letteratura. I suoi titoli si fecero via via sempre più considerevoli: Marchese della Venerazione del Genio, Re, poi Sommamente Geniale Re della Diffusione delle Lettere. Finirono per prosternarsi davanti alla sua effigie come davanti a quella d’un dio.

Come comportarsi con il cadavere d’un Maestro, digressione di Laura Liberale

(da Il grande discorso del nibbāna definitivo, Dīgha Nikāya, 16, a cura di Claudio Cicuzza, in La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori, 2001)

“Monaci, tutti i dhamma condizionati sono destinati a decadere. Continuate ad esercitarvi, instancabilmente”. Queste furono le ultime parole del Tathāgata.
Quindi venne ordinato di portare profumo e ghirlande, e radunare tutti i musicisti. E con i profumi, le ghirlande e tutti i musicisti, e con cinquecento paia di abiti andarono alla piantagione di sāla [Vatica robusta] dove giaceva il corpo del Beato. E lì onorarono, resero omaggio, adorarono e venerarono il corpo del Beato con danze, canti e musiche, con ghirlande ed essenze, montando ripari e tende circolari al fine di passare lì la giornata.
Al settimo giorno pensarono: “Abbiamo tributato onori a sufficienza con canti e danze… al corpo del Beato; ora bruceremo il suo corpo dopo averlo trasportato fuori della porta meridionale. Adesso solleveremo il corpo del Beato”, ma si accorsero che erano incapaci di farlo.
[Chiesero lumi al venerabile Anuruddha, che rispose:]
“La vostra intenzione è di bruciare il corpo del Beato dopo averlo portato fuori attraverso la porta meridionale. Ma l’intenzione delle divinità è che lo si trasporti al nord della città, lo si faccia entrare attraverso la porta settentrionale, lo si porti poi fino al centro della città, e infine fuori attraverso la porta orientale verso il tempio dei Malla, e lì lo si bruci.”
[Così fecero.]
Quindi chiesero al venerabile Ānanda: “Venerabile, come dovremmo comportarci con il corpo del Tathāgata?”.
“Voi dovreste comportarvi con il corpo del Tathāgata come vi comportereste con quello di un monarca universale.”
“E come ci si comporta con il corpo di un monarca universale?”
“I resti mortali di un monarca universale vengono avvolti in un telo di lino nuovo. Questo viene avvolto in un panno di lana cardata, e questo in un panno nuovo. Dopo aver fatto queste operazioni cinquecento volte, si chiude il corpo del re in un vaso di ferro per contenere l’olio, coperto da un altro vaso di ferro. Quindi, dopo aver fatto una pira funebre con ogni tipo di profumi, si fa ardere il corpo del re e si erige uno thūpa [reliquiario] ad un crocicchio.”
Allora essi ordinarono di portare i tessuti di lana cardata. Avvolsero i resti mortali del Beato in un telo di lino nuovo. Questo venne avvolto in un panno di lana cardata, e questo in un panno nuovo. Dopo aver fatto queste operazioni cinquecento volte, il corpo del Beato venne chiuso in un vaso di ferro per contenere l’olio, coperto da un altro vaso di ferro. Quindi, dopo aver fatto una pira funebre con ogni tipo di profumi, il corpo del Beato fu fatto ardere.
Quando il corpo del Beato fu bruciato, della pelle, dei muscoli, dei tendini, del fluido delle giunture, non rimase nulla, neanche ceneri o polvere. Restarono solo le ossa. Proprio come quando si brucia del burro o dell’olio, non rimane né cenere né polvere, così fu con il corpo del Beato. Di tutti i cinquecento abiti, solo il tessuto più interno e quello più esterno erano completamente bruciati.
[Venne quindi proposto, per evitare discordie, di dividere le reliquie del Buddha in otto parti e di erigere altrettanti thūpa, più un nono per l’urna e un decimo per le braci.]

[1] Nota della traduttrice: nel dubbio, ho lasciato per questo titolo cinese la traslitterazione francese.

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