di Diego Conticello
Allievo di Contini e accortissimo studioso di Dante e Montale (per l’analisi dei quali produsse i suoi ormai celebri Accertamenti) è sempre stato defilato dalle correnti “ufficiali” della coeva “linea lombarda” dunque, pur comparendo nella arcinota antologia Quarta generazione di Erba e Anceschi, vi era stato accostato dalla critica del tempo più per contiguità geografica che per affinità stilistiche.
Poeta dal fortissimo spirito analitico e nomenclativo ha fatto del “correlativo soggettivo” di marca eliotiana una delle cifre peculiari della sua poetica, così ben tornita e strutturata attraverso nominazioni specifiche sino ai limiti della catalogazione (soprattutto fisico-naturalistica), dove appunto l’oggetto diventa lo schermo-simbolo del pensiero interiore. Propongo qui una poesia tratta da L’ora del tempo[1] in cui quanto esplicitato poc’anzi segue linee definite e nettissime:
Sera a Bedretto
Salva la Dama asciutta. Viene il Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.
Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.
Domina il ricorso all’elenco oggettuale e l’orbita cupa del Montale di Meriggi e ombre e de Le occasioni ([…] Batte più volte sordo sulla tavola…; e ancora: […] ti batte ai polsi inavvertita e il volto t’infiamma o discolora)[2] che giova tuttavia ad esternalizzare la sensazione di gravità interiore che aleggia per tutto il componimento.
E’ evidente fin da subito il ricorso ad una lingua dai suoni aspri e netti di memoria ‘petrosa’ dantesca, con l’utilizzo in misura maggiore di occlusive dentali in incipit per impostare il tono “duro”, che poi scivolano verso il nasale al centro della lirica per ammorbidire ed ammansire apparentemente il dettato, anche se in maiuscolo vengono messi tre concetti “pesanti” come Matto-Mondo-Morte e si concludono nella ripresa finale ancora con occlusive per rinforzare e ribadire la definitiva e irredimibile “amaritudine” insita nelle ‘cose’ che fungono da correlativo.
Lo scenario è tuttavia estremamente aperto alla figuratività e afferisce al filone “popolare-contadino” del gioco delle carte, della superstizione, dello stemperamento illusorio della dura quotidianità fatta di sudore e lavoro. Viene immediatamente da associare l’immagine al dipinto Gioco delle carte di Cezánne per l’ambiente rustico, le mani delineate con tratto pesante cui si sovrappone, per contrasto, la rottura di una quiete apparente causata da pensieri angosciosi (resi ancora sottoforma di ipostasi nel trittico su indicato “Matto- Mondo-Morte”).
In sostanza siamo di fronte a un fascinoso affresco antropologico dai contorni secchi e precisi – derivante da un approccio incuriosito non solo verso la realtà quotidiana ma anche nei confronti degli studi di carattere etnico-popolare (come avviene anche in certe liriche “terragne” di Lucio Piccolo tra cui Il forno, L’ammonimento, Le carte in cammino, Si provano d’osso le nocche, ecc.) – in cui forse la lingua aspra e dura ci appare forse più come una conseguenza delle immagini ritratte e dunque asservita alla scena che l’autore vuole lasciarci.
***
[1] Giorgio Orelli, L’ora del tempo. Milano, Mondadori 1962, ora in Tutte le poesie (a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani). Milano, Arnoldo Mondadori Editore “Oscar poesia”, 2015.
[2] spezzoni tratti dal Montale di Vecchi versi e Stanze.