Ostinato Faldone – Vladimir D’Amora legge Vincenzo Ostuni

Ostinato Faldone

1.

La scrittura (anche poetica) di Vincenzo Ostuni, via quel getto di frasi monstruose e gettato e costruitissimo – nettezza centrifuga e mostrazione di pendenze sciolte e, insieme, compiute.

Il Faldone ostuniano è una scrittura della dissoluzione – è in-im(-)piegabile, come se la sua credibilità e spendibilità si lasciasse sottoporre a una tiritera e sequela di contraddizioni in fuga… Inimpiegabile, dunque, e certo in una accezione dinamica, ma non per il lessico che pure vi cade, in una sua astrattezza, e persino astraente, e manco perché giace (non: per) in una bildung vuota, a carica d’incognite che non fanno segno, ma che sono esse stesse (i) significati.

Piuttosto è una scrittura esausta: la lingua è contemplata nella sua potenza d’impiegarsi, quindi, non si presta se non a una lettura che, qualora voglia rendere e fondo e capitale, ha da congedarsi da questa scrittura che soprappensa. E in cui, quindi, ad accadere, è una krisis del significare e dell’uso che la significazione è: il segno, tendente e teso, dovrebbe evacuare la sua pesantezza in vista di un inveramento… Ma si piega, piuttosto negandolo, a un inattingibile: cosa è di più leggibile di un vuoto di rappresentazione: di una specie non di nulla, ma del nulla? Le immagini, che non sono se non malgrado-tutto, in somma il farsi essere e divenire di un divenire e di un essere: la lingua di Ostuni è tutt’esposta alla sua stessa capacità di essere tutta scorrente – quanto un punto nell’estesa circolarità: un divenire che riposi nel suo letto-di-verso e però intenzionalissimo. E l’immagine, forse, non altro che questo è – se l’essere dell’immagine è il suo stesso esistere: una contrazione ontologico-politica: una species ed espèces: un costo di (un) dio…

Le voci, cioè, di un dialogo in allunaggio insolubile… Per una immagine della lingua, la cui propria soggettità, piega di storicità, non possa che darsela come fruizione della sua stessa assolutezza. Perciò sarà, la scrittura di Ostuni: sarà mondo-cinema, più che terra-teatro. Perché entro l’impaginazione stessa, cui è assegnabile la disseminazione anche delle cesure: eccolo, il vuoto; e cosa è più leggibile di un vuoto di rappresentazione: di una species di nulla? Ma siccome non è (solo) un vuoto di rappresentazione ma: immagine-malgrado-tutto – ecco che si legge, un faldone, sempre perché rinvia a un vuoto; e il vuoto intorno a cui ogni tessitura gira e rigira, piega e spiega, è il mondo rinviando al quale il testo sempre lo manca e si manca – per questo la cesura è illeggibile.

2.

Il vuoto, lo spazio del bianco, linee di scrittura di vacanza – il Faldone di Ostuni è ininterpretabile. E questa è una situazione marxistica: la surdeterminazione: e malgrado il ritardo e l’incapacità di contenimento, è l’immagine, l’esposizione di un aver luogo, un mondo di strazi e di sorgenti di vacanze di significati.

Dentro la lingua (di Ostuni) non cadono rotture, se non linguisticamente ricevibili: parole e frasi, pezzi e posture e movenze e riversaggi iper-poetici e -prosastici, stanno disattivati e in ciò compiuti: non dispongono ulteriorità d’immagine: di mondo: spiegano cinema e non teatro – un cinema passato per la lacerazione sottostante dello schermo, lacerazione che s’insegue e si moltiplica in una viseità di cata-strofe – e una verticalità è così assicurata. E la trascendenza non procede, bensì arretra – i gradi ulteriori precipitano, anzi, chirurgicamente si allentano in gorghi, anzi, in incidenti di riferimenti e di reciprocità di abisso – nessuna antinomia si presta alla ricreazione delocalizzata: superiore.

3.

Una capacità disciolta nelle cose, una poiesi negata, tuttavia il disegno è chiaro sebbene ritardato, posticipato nella verità sua.

Gli imbarazzi, e impedimenti, gag, i pro-blemata: l’eternità dell’incontro e della conciliazione per un sovvertimento irreparabile: punti di screzio, kriseis addebitate ad allitterazioni spesse, variate per insignificanze e distensioni di molecole di somiglianza, per gesti la cui flebile voce è schizzo inaggirabile – sebbene deglutito assorbito. E politicamente motivato.

Le forme s’inseguono, le frasi si riprendono, le linee accumulate e gestite – un controllo fino all’esaurimento, una tensione orientata per cellule di produzione e d’investimento di risorse necessario e uno spreco comandato: codificato attraverso appelli la cui risposta è data e, insieme, ancora plausibile – la comicità, dato che il vuoto soggiace quasi magma asettico (ciò cui rinvia questo movimento di montaggi, è non già il mondo, ma l’affaccio a esso), è per sovrappensiero, per un’ultracogitazione cui si richiede di farsi carico di ogni perdita e di ogni sconfitta – il mondo, nel cui vuoto il testo involve, è un rimando di flipper la cui metallicità è lasciata risuonare per quel tanto che possa essere inventariata perché garantita da una marca riconoscibile: da un’idea di forma – di polis… Nei contatti degl’incontri. E scontri.

4.

L’utilità, la politicità – grazie a una strozzatura, nelle strozzature stesse della lingua. I resti sono assunti per una capacità di immagazzinare i margini, le possibilità dei residui e dei supplementi: la scrittura di Ostuni organizza una situazione di lettura, tra Agostino e Nietzsche: tra Ambrogio e la ruminazione. A Roma doveri di riversaggi e di perdite (anche immorali), di precisioni di con-temporaneità e di simulazioni – a Milano la possibilità di un inchino: delle portate provvisorie… Una geografia in cui come dimorando presso l’atto si costruisce la letterarietà di tradizioni e di ricerche: il Faldone ostuniano, più che sperimentale, è appellativo. In ciò, anche per questo, è una agibilità politica. Un lavoro che marca le sue assenze, spettralizzando i passaggi e i passi, richiedendo ai vuoti di farsi energicamente connettivi, un lavoro non sui corpi, ma negli organi. Così che quanto resta, è una scrittura decidente differenze e dislocantele: le trasmette.

Non si tratta di votarsi ad alternative che riformino, che lascino a una forma, a una concentrazione della lingua, a un grumo frastico di riprendere da quanto prima si è tolto. Piuttosto scrivere del trasferirsi di un compito – compito meno à la Heidegger, che à la Benjamin – e del tradursi di postazioni di disponibilità linguistica, di programmazioni poetiche: spingere la frase fino alla indecidibilità di proprio e di inautentico: come se Ostuni si trovasse ad abitare un’alba successiva all’incontro interrotto e ripreso, all’improvviso e fugace irrompere di una terza persona, il quale sia lasciato confluire nel nuovo significato – oltre il quale e prima del quale, non è l’insensatezza, ma la dispersione delle figure: non l’anonimia, ma le sinonimie in cui l’impersonale si tiene vivo e vivificante quasi.

5.

La parola è sospesa in un campo attorno al quale vigono interdetti e ostacoli da cui il campo stesso non sa, e non vuole, prescindere: la poesia sorge entro una storia di lingua e di parole come incidente tra incidenti – le parentesi.

La parola è prelevata dal campo stesso entro cui insorge quasi perentorietà d’intimità straniere, di lirici assoggettamenti a memorie seconde e terze: manca una faccia cui il volto possa tentare di adeguare una presunzione di senso: i visi lottano come in una circolazione di messaggi che scrivono lo stesso e la differenza entro lo stesso – le virgolette.

Il nichilismo ostuniano è un mistero burocratico: la mostruosità post-storica e post-umana del Faldone non traduce un fascinans et tremendum da una topicità naturale e cordiale, a siti e situazioni che ne ricevano la carica lasciando che si esprima in un fuori; il Faldone lascia che la vita visualizzi il suo studio e che lo studio oda la sua vitalità: come le immagini di lingua, che il Faldone riproduce ma non esprime, fossero dei 200 asa, quindi granularità di epoche che trascorrono, a variare e misurare limites atque limina.

6.

Il comico in Ostuni è la frattura marxiana entro l’immediata coincidenza dei livelli di storia. Storia destituita e tenuta in non altro, che in tale sottrarsi e lungo decantarsi: per heimat d’istante, ossia vuota. Che Ostuni sia da leggere inventariandoli, riferimenti e rinvii, dice di questa lingua che quanto più essa si aggancia, tanto più si perde nella sua cinematograficità: la parola esausta lascia all’immagine una inventio, un’euristica ostinata, ma finalizzata al nulla delle cose, e non della Cosa.

E’ il situarsi della krisis: una luogo-tenenza e di banalità e di impersonalità, di autentici sputi e di sodi raggiri… Una cata-strofe poetica; perché quanto più ci distendiamo in flussi non espressivi: quanto più ci disponiamo in e a e per vortici in-concludenti, tanto più leggiamo Ostuni ed è leggere tout court: una filologia di adiaforie… Scordandosi che, dalla postazione della musa, ci si scioglie per giudizi via via indecidibili. Se nelle soglie di polis la forma e la vita collassino involvendosi, ossia se si riguardino per frammezzi nulli ma capaci di questo nulla stesso.

Il male, in Ostuni, non è misterioso.

7.

Euporie tutte morte dopo Auschwitz. Soggetti sì, ma di potenze ferite e uccise.
Pezzi d’immagini. Esposizioni e pori di limiti. E strazi localizzati e sorgenti di parole indifferenti: attraversando la solitudine in una lingua in cui l’infinito scartarsi, è questo prole poetica.

E la lingua non si lascia contemplare: sola la sua immagine è ciò che si sa, che non possa esser vista – la scrittura di Ostuni, esausta, come la chiusa sempre finale, sempre ultima, sempre trascorrente in questo finire, di un dialogo di convincimento che l’una forma è l’altra vita, che questa vita è quella forma: la poesia non redime, la poesia come gnosi.

Dunque lingua-cinema: contemplazione della lingua nella sua orizzontale anagocità. Il suo dispiegarsi, anzi, impiegarsi sul brulichio risentito: sui balbettii pisci e decisi che restano. La purificazione della scrittura cade nella scrittura: una pagina che va studiata.

In un istante la cui verità…

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qui il  ” faldone”:http://www.faldone.it/

0 pensieri su “Ostinato Faldone – Vladimir D’Amora legge Vincenzo Ostuni

  1. L’ha ribloggato su Cinzia Accettae ha commentato:

    La parola è sospesa in un campo attorno al quale vigono interdetti e ostacoli da cui il campo stesso non sa, e non vuole, prescindere: la poesia sorge entro una storia di lingua e di parole come incidente tra incidenti – le parentesi.

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