Rabbia e passioni nel Cinema di Marco Bellocchio

di Giovanni Graziano Manca

Uno dei più grandi, insieme a Olmi, Bertolucci, Ferreri, Cavani, Rosi e pochissimi altri, tra i registi della generazione mediana del cinema italiano che hanno iniziato la propria carriera tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, Marco Bellocchio, una quarantina e passa di opere all’attivo tra lungometraggi, cortometraggi e documentari è un artista vero, unico, coerente, intransigente e poco incline al compromesso puramente commerciale.

I suoi film, sempre poco accomodanti e così poco inclini alla mistificazione della realtà delle cose sono talvolta sconvolgenti per il loro pragmatismo estremo, per il loro voler stare sempre e comunque dalla parte della verità; un cinema difficile, di nicchia, forse, certamente non un cinema destinato a scatenare gli entusiasmi della grande platea. Un cinema, per altri versi, ricco di suggestioni intimistiche che si intrecciano continuamente con tematiche politiche, sociali, religiose, familiari e precipuamente, in alcune delle pellicole che l’autore piacentino ha girato a cavallo dei decenni ’80 e ’90 del secolo scorso, con i misteri insondabili dell’animo umano e la rappresentazione di situazioni che hanno a che fare con la psicanalisi e la psichiatria.

Regista di formazione ‘accademica’ (si diploma presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma nei primi anni Sessanta e completa i propri studi di Cinema qualche anno dopo, a Londra), Bellocchio ama il cinema di Fellini e Visconti. Il maestro piacentino esordisce alla macchina da presa nel 1961 con i cortometraggi Abbasso il zio, opera di vago sapore pasoliniano, e La colpa e la pena. Il mediometraggio Ginepro fatto uomo, invece, risale al 1962. Questi ultimi due film, realizzati in qualità di studente di cinema (Ginepro fatto uomo, in particolare, con Stefano Satta Flores nelle vesti di protagonista, è il saggio, una sorta di prova d’esame, presentato da Bellocchio al Centro sperimentale di cinematografia in occasione del suo diploma), contengono già, in nuce, alcuni dei tratti caratteristici dell’arte bellocchiana: la commistione continua tra le vicende pubbliche e quelle private dei protagonisti, la vis polemica e politica che contraddistinguerà molto del suo cinema a venire, la critica feroce nei confronti delle istituzioni sociali, prima fra tutte la famiglia. Sul piano formale, oltre all’utilizzo di simbolismi, si nota in questi primi lavori la presenza di atmosfere che rivelano la grande passione del cineasta di Piacenza per il teatro.

Il primo lungometraggio di Bellocchio, intitolato I pugni in tasca, esce nel 1965 e subito impone il regista all’attenzione del pubblico internazionale. Le tematiche su cui è basata l’opera vengono proposte dal regista con particolare veemenza ed efficacia; il disagio psicologico che riveste i caratteri della patologia e che pervade le vicende affettivo-esistenziali quotidiane di una famiglia – quella che è protagonista del film – e la critica serrata rivolta dall’autore, in anni in cui si respira già un’aria che potrebbe essere definita, parafrasando il titolo di un film di Bertolucci uscito nel 1964, di pre rivoluzione, al perbenismo borghese, in I pugni in tasca sono rappresentati spietatamente. Appaiono inoltre evidenti, nella prima dirompente esperienza registica compiuta di Bellocchio, le influenze bunueliane e quelle della scuola francese della nouvelle vague.

Il cinema del primo Bellocchio è rabbia, forza polemica inestinguibile e passioni (comprendendo tra esse anche quella per la politica che costituisce l’interfaccia che consente all’artista di volgere il proprio sguardo critico agli aspetti negativi che caratterizzano la società italiana e le istituzioni che ne fanno parte). Tali elementi identificativi affiorano in maniera molto più esplicita rispetto al film d’esordio in La Cina è vicina, lungometraggio del 1967 che rappresenta uno spaccato di vita provinciale in cui emergono le ipocrisie e i falsi ideali di protagonisti che, animati da uno spirito fintamente socialista rivoluzionario, si muovono tra scenari di squallide tresche amorose e il tentativo maldestro di accedere in periodo elettorale a una carica di assessore comunale solo per ambizione personale.

Il breve Discutiamo discutiamo , che fa parte del film a episodi Amore e rabbia, è del 1969 e viene interamente girato in un’aula dell’Università degli studi di Roma. Troviamo, qui, ancora, la politica in primo piano, quella, per la precisione, della contestazione studentesca degli anni caldi con lo stesso Bellocchio, in questa occasione regista alla ricerca di nuove e più realistiche modalità espressive, tra i protagonisti.

La politica è sempre stata punto di riferimento artistico e fonte di ispirazione privilegiata, per il regista piacentino, oltre che di nutrimento costante, per sua inestinguibile passione civile. Frutto di tale forte interesse dell’artista sono anche i film Sbatti il mostro in prima pagina (1972) e Buongiorno notte (2003), che rappresentano aspetti della politica e degli intrecci di potere molto diversi tra loro. In Nel nome del padre, film del 1971, Bellocchio mette in discussione, contestandola aspramente, l’inadeguatezza dell’istruzione e del metodo pedagogico che vigono all’interno di una scuola retta da religiosi in cui vengono formati alcuni giovani di elevato rango sociale.

L’osservazione di un microcosmo problematico come quello del collegio religioso all’interno del quale è ambientato il film consente al regista di mettere in evidenza ancora una volta, e in questa occasione con modalità rappresentative talora ispirate al cinema espressionista, alcune delle tematiche a cui egli è particolarmente affezionato. Nel rivendicare il diritto dei giovani ad avere una educazione laica, il lungometraggio mette sotto accusa il potere ecclesiastico, la contiguità di quest’ultimo con un certo tipo di politica e le differenze sociali fortemente marcate che pesano sull’esistenza e sulle condizioni di lavoro degli inservienti della scuola. Nel film emerge anche, inesorabile, il disagio di ciascuno dei giovani studenti il cui atteggiarsi alla vita costituisce lo specchio fedele dell’anticonformismo (in quegli anni assai coraggioso) e dell’anticlericalismo bellocchiani.

Il Gabbiano, da Ceckov, è un lungometraggio del 1977 che inaugura il nuovo percorso intimista e meno politicizzato intrapreso dal regista piacentino e racconta alcune delle vicende di cui è protagonista una agiata famiglia russa; al centro dell’opera, che nuovamente mette in luce la passione del regista per la messa in scena teatrale, l’amaro destino che spezza, in qualche caso tragicamente, i sogni di alcuni dei protagonisti del dramma. Enrico IV, opera del 1984 tratta da Pirandello, ripropone intatto al pubblico cinematografico l’amore per il grottesco e il gusto per le situazioni paradossali che contraddistinguono l’opera del grande commediografo siciliano. Memorabile, in questo film, la grande interpretazione di Marcello Mastroianni nei panni del sovrano.

Nel corso degli anni successivi il forte interesse per le tematiche psicologiche e psichiatriche porterà Bellocchio a collaborare fattivamente con lo psicanalista Massimo Fagioli in alcuni film di grande impatto emotivo come Diavolo in corpo (1986, opera da Bellocchio espressamente dedicata a Fagioli), La visione del sabba (1988), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994). Si tratta di opere di non immediata comprensione per il grande pubblico, forse, ma certamente di grande spessore artistico, culturale, scenico e letterario nei quali il regista compie un percorso introspettivo che lo porterà a rappresentare sul grande schermo problematiche relazionali e alcuni degli oscuri meccanismi di funzionamento delle passioni e delle dinamiche affettive su cui l’uomo si interroga quotidianamente.

Gli ultimi anni vedono l’artista impegnato in film che ripropongono, all’interno di contesti narrativi forse più classicamente strutturati, concreti e ‘leggibili’, i temi consueti del disagio psichico, delle passioni morbose e dell’ipocrisia diffusa ai più vari livelli che dilaga perfino nelle istituzioni religiose e negli ambienti artistici, quello del Cinema in particolare. Rappresentativi appaiono, in questo senso, i lungometraggi L’ora di religione (2001) e Il regista di matrimoni (2006) che si giovano entrambi della straordinaria interpretazione di Sergio Castellito, e Vincere (2009) film a cui sono state attribuite, in occasione della cerimonia di consegna dei premi David di Donatello 2010, ben otto statuette (compresa quella per il miglior regista). Non mancano, nella visione dell’ultimo Bellocchio, le tematiche sociali scottanti come quella dell’eutanasia, sviluppata in La bella addormentata (2012). L’ultimo (per ora) grande film di Bellocchio è opera pluritematica, complessa e dirompente come nello stile del miglior Bellocchio. Il film non si limita a parlare di ‘morte dolce’ ma mette in scena, con la consueta vis polemica, anche altre attuali tematiche d’altro ordine. Varrebbe la pena dedicare ad esso una apposita trattazione.

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