Federica Giordano

a cura di Mario Fresa e Stelvio di Spigno

Federica Giordano è nata a Napoli nel 1989. Si laurea con 110 e lode in Lingue e culture moderne con una tesi in traduzione letteraria dal tedesco dal titolo “Traduzione e traducibilità della poesia. Porcellana di Durs Grünbein”. Nel 2008 pubblica la raccolta poetica Nomadismi. Nel 2009 è autrice del testo in musica Favola di Mezzanotte, musicato dal compositore G. Mancusi. Nel 2011 pubblica La parte che ti ho affidato, Boopen Led Edizioni. Sue poesie vengono pubblicate su riviste specialistiche. Partecipa a reading poetici e rassegne letterarie come Il festival della Letteratura di Narni e Una piazza per la poesia di Napoli. Si occupa di critica letteraria per varie riviste tra cui “ Nuovi Argomenti” e “Poesia” di Crocetti. Da segnalare il suo servizio sulla raccolta “Porcellana – Poema sulla distruzione della mia città” di Durs Grünbein, pubblicato nel numero di Febbraio 2013 della rivista “Poesia”. Nel 2014 partecipa come autrice e come traduttrice al progetto antologico “Ifigenia siamo noi”, edito da Scuderi Edizioni. Cura la sottotitolazione italiana di due lungometraggi di Cynthia Baett “Cycling the frame” e “The invisible frame” presentati nell´ambito delle rassegne culturali del Goethe Institut di Napoli.

Testi

Epistola

Mi arriva la tua voce desertica da quella roccia lontana
che a volte sfioro con dita buie.

Tu non hai conosciuto Daniela e la sua disciplina che le ritmava le parole,
ma credimi, aveva la tua stessa vocazione.

Mi sapete dire, voi, donne – anime,
-le uniche che io abbia davvero amato-
come faccio a conoscere quel vostro regno di sabbia,
quell’isola di naufragio che non voglio toccare?

Daniela, tu che ti sei fatta madre mentre cadeva il muro di Berlino,
tu forse hai avuto la peggio perché non hai voluto nemmeno guardare.
Hai abbracciato la malattia come si abbraccia un amante che non si può,
perché non si può. E tu non hai potuto. Io non ho mai potuto
ascoltare questa tua sinfonia sommersa, è stata una freddura.
Hai cantato troppo piano, ti sei imposta anche questa volta una regola troppo dura.

Ma tu invece, amica, io mi chiedo se tu non sia l’unica sana,
tu che guardi e ti rintani, ti nascondi quando la vista si affina
fino a farsi fitta e perforazione. Io sento la tua voce anche lontana,
una voce che da sola si seda, sei come autosufficiente.
Ma io lo so, lo so, lo prevedo perché conosco quei tornanti,
so come si arriva lì dove tu sei, dove mandi silenziosi presagi
che io ricevo mentre mangio o mentre lavoro, mentre dormo. I tuoi cari segnali.

Penso ai nostri pochi incontri, come lettere, lettere, lettere,
tante epistole gemelle. Il miracolo della risposta.
Mi hai detto di avere imprese collettive,
che non sarai una madre.
E mentre lo dicevi, io avrei tirato i tuoi passi da quella strada
che avevo già visto, che non voglio percorrere e che spero non mi trovi.

Ogni tanto questa bestia si specchia con la sua testina
verdissima nelle cose che amo e mi richiama. Ma io già sento la bufera di sabbia
che mi tappa il naso. Per questo col pensiero, accarezzo i tuoi occhi screziati,
i tuoi incubi di sabbia e penso che ti salverai, ti salvi come fenice ancora più bella
mentre io azzero, azzero con il nervo teso, fantastico sempre nuove nascite.
Ma tu sei bella, tanto bella mentre non comprendi il mio segreto.

Intanto mentre sei lì, salutami, se puoi, gli occhi verdi
di Daniela, che rotolano in una valle di Germania
e portami, se puoi, un fiore nato lì di mia mano, durante una fuga.


Eva

Il mio corpo allo specchio non è più cattedrale.
Il coro dopo la prima messa tace.
Adesso il mio corpo è industria,
macchina programmata per essere ingranaggio.

Braccia, gambe, capelli, buchi.
La macchina vorace ha affogato il sibilo,
il sibilo del freddo da cui ci si difendeva
stando nell´asola umana,
l´abbraccio solo di Eva.


L’armatura

L’etica è un’armatura di calcare.
Nel corpo attecchiscono come tarme
nel legno le mie stesse cuciture.

È questo profondo rosicchiare del cotone,
questo sfregare continuo
i tessuti del mondo col corpo coperto,
che ha il sapore delle cose consumate.

Ed è per questo che mentre il corpo muore,
sulla pietra la luce è ruga monumentale.
Qui bisogna spogliarsi senza paura,
perdere la protezione e sentirsi nudi e superflui.


Equilibri

E si resta antichi nella migrazione, la caparbia linea orizzontale.

Solo nell’essere colonna

non si teme il fardello della struttura.


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