di Marta Cutugno “Un feto. Vorrei essere un feto per non dover decidere quando uscire”. Suoni metallici risuonano senza sosta. Da un armadio, al centro della scena, luogo privato, rifugio dell’anima, viene fuori Silvia, una donna con le mani sul … Continua a leggere “Non lasciamole sole”: Barbablù-storia di quotidiana violenza
“Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita”.
(Alda Merini – “La pazza della porta accanto”)
Teatro Vittorio Emanuele: Tutto è per lei, tutto è per Alda. A Messina, dove il 16 ottobre del 2007 le fu conferita la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione, risuonano i versi della poetessa dei Navigli in “La pazza della porta accanto”, spettacolo di asfissianti emozioni scritto da Claudio Fava per la regia di Alessandro Gassmann.
“Ma chi è poi la pazza della porta accanto? Per me è la mia vicina. Per lei la matta sono io, come per tutti gli abitanti del Naviglio, della mia casa”.
Alda, quella complicata donna che, nel ’43 ancora bambina, aiutò la madre a mettere al mondo il fratellino mentre la casa andava giù sotto i bombardamenti. Una giovinezza di stenti e poi il matrimonio con Ettore Carniti, quattro figlie e tante fragilità. La sua linfa di donna fu irrimediabilmente segnata dalla depressione spacciata per pazzia e dagli internamenti presso l’Ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, prima e presso un Istituto psichiatrico di Taranto, poi. Le figlie raccontano che tutto ebbe inizio una notte: il marito rientrò ubriaco e lei, stanca delle bastonate, gli scaraventò addosso una sedia mandandolo all’ospedale. Le furono sottratte le figlie e fu immediatamente ricoverata.
Parte proprio da lì l’evoluzione narrativa dello spettacolo di Fava. Si aprono le porte di questo grande edificio grigio e tetro, i cui muri scritti somigliano alle pareti degli anni maturi di casa Merini, muri come rubriche telefoniche e quaderni di appunti. La struttura scenica è estremamente funzionale e presenta due blocchi staccati e movibili che gli stessi attori fanno scorrere per ricreare, di volta in volta, la giusta ambientazione (il cortile, l’ingresso, lo stanzone).
“Il manicomio è una grande cassa
con atmosfere di suono
e il delirio diventa specie,
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai
luogo maledetto
sopra cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta”.
Luci bianche illuminano la scena attraverso finestroni alti in vetro mattone. Sul fondo, una parete di sbarre avanza e arretra all’occorrenza segnando la linea di confine tra sano e malato. Il disegno luci di Marco Palmieri e la videografia di Marco Schiavoni conferiscono ricchezza allo spettacolo tutto. Sul ciglio del palcoscenico, tra il pubblico e la scena, risulta interposto un velo che rende l’atmosfera dolorosa e rarefatta con effetti olografici di grande fascino. Riflessi su quel velo ci sono le sagome di Alda e del dottore che, al suo arrivo, la invita a spogliarsi ed indossare la divisa dell’istituto, il lenzuolo, con cui venivano asciugate le pazienti, che cade morbido e tagliente, la suggestiva pioggia di petali rosa che baciano la sala, i mille fogli, con le poesie di Alda, che vengono giù dal cielo.
Accompagnata dal marito, la trentaseienne Alda Merini viene ricevuta nell’istituto psichiatrico, la diagnosi è di schizofrenia paranoica. “Dietro quella diagnosi c’è la mia anima”. Insieme a lei, un gruppo di altre donne dall’identità oramai sintetizzata in una consonante: la zeta, la emme, la enne ecc. “Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai“. Attraverso i versi della poetessa avanzano le tristi memorie di quel sofferente periodo. “Diglielo tu, a noi non credono più”, rivendicano le amiche e compagne. È la storia di un male condiviso in un luogo in cui è proibito fumare, gridare, parlare, piangere, e perfino guarire.
Il tempo è scandito dalle “cure“: pillole, premorfina, curaro, elettroshock. Da mattina a sera tutto è uguale, “domani qui dentro è già passato” e si arriva alla fine del giorno sotto quella luna corrotta ed immensa che resta alta e lontana in trasparenza sul velo. Il divieto di innamorarsi viene violato. Alda incontra Pierre, un paziente come lei ed in quella solitudine monocromatica, ricercano i colori della vita. Dalla loro unione intima, folle e carnale nascerà una bambina che non conosceranno mai. Poi la vita può riprendere, arriva il momento di andare via e di tornare a casa, non prima di chiedere indietro le impronte digitali lasciate il primo giorno e non prima di veder volare verso il cielo un palloncino verde venuto fuori dal pancione di una internata gravida.
Quello di Claudio Fava è un testo sensibile che attinge dagli scritti della Merini ricostruendo toccanti sequenze di vita dove vita non può esserci. La poesia, l’amore, l’amicizia irrompono in quella scatola di dolore e trasfigurano i protagonisti, sono lampi di luce nella sempre più scarsa speranza. Alda è lì, poetessa degli ultimi, che da ultima ha goduto la vita, come una clochard. Lei, che, in vita, proprio a loro, ai senza tetto incontrati per strada, diede quasi tutti i soldi del premio Montale Guggenheim.
A firmare la regia e le sublimi scene, che con fluidità e classe disarmante si incollano a personaggi ed eventi, Alessandro Gassmann con la collaborazione di Alessandro Chiti.
Il testo è accompagnato dalle struggenti musiche di Pivio & Aldo De Scalzi che delicatamente trasformano in suono lo strazio e la fitta esistenziale. Ottimi e di significato i costumi curati da Mariano Turano. Medico, infermiere e portantini indossano camici ed uniformi in unica tinta mentre come tela sfumata sono gli abiti dei matti in divisa da matti: un giallo pallido e sbiadito sul petto che diventa ocra al ventre e poi marrone ai piedi.
Anna Foglietta bene interpreta una poetessa perennemente in bilico tra paura e desiderio che niente lascia al caso, respiri, passi, gesti e parole riprodotti con maniacale cura; bravo Angelo Tosto, il medico e direttore dell’Ospedale che, con grande trasporto, non nega abbracci paterni e forza comunicativa; Liborio Natali è l’innamorato Pierre, un Romeo che, in balia dell’inadeguatezza, sul finale, respinge Giulietta/Alda. Nel cast anche Sabrina Knaflitz, Olga Rossi, Cecilia Di Giuli, Stefania Ugomari Di Blas, Giorgia Boscarino, Gaia Lo Vecchio. Menzione a parte merita Alessandra Costanzo che, nei suoi interventi da internata, si impone per presenza scenica e sensibilità piena e matura.
Una produzione Teatro Stabile dell’Umbria e Teatro Stabile di Catania
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