I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): Atene, il Pireo, un sax e una voce

Atene appartiene al gruppo delle città cristallizzate in immagini fisse: l’Acropoli, la Plaka e Monastiraki, luoghi comuni del turismo di massa. Ma per chi come me proviene dalla Terra d’Otranto è proprio la cosiddetta Atene moderna, comunemente considerata brutta e priva d’interesse, a essere stata una sorta di rivelazione: nel suo apparente disordine urbanistico mediterraneo e levantino che è frutto da un lato d’assenza di regole, dall’altro d’una singolare estrosità, Atene offre l’occasione di perdersi per le sue strade, di scoprire accanto a luoghi fortemente segnati e condannati dalla crisi finanziaria e politica altri che sono silenziosi, eleganti, segreti oppure talmente appartati da sfumare nella campagna, ricordando quei paesi del Salento o della Sicilia penetrati di silenzio, spesso violentati dall’edilizia degli ultimi decenni, ma nei quali si trova un residuo di solidarietà e umanità, un ritmo di vita molto meno convulso di quello di cui siamo vittime più o meno consapevoli.

 

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Come ognuna delle città più antiche del Mediterraneo anche Atene ha conosciuto la stratificazione delle epoche, ma è l’Atene classica (o quella che, da Winckelmann in poi, equivocando continuiamo a chiamare “Atene classica” e che oggi serve precipuamente all’orribile industria turistica) che sembra eclissare tutto quello ch’è poi seguìto. Si dimentica la raccolta religiosità dell’Atene bizantina, ancora oggi visibile nelle cappelle che, inaspettate, si scoprono in giro per la città (e ce n’è una in odós Mitropóleos letteralmente sovrastata e inglobata in un enorme palazzo moderno). C’è l’Atene dagli eleganti, luminosi palazzi sorti subito dopo l’indipendenza intorno all’Acropoli e quella, bianca come tutte le città mediterranee, che si contempla appunto dall’Acropoli o dal Licabetto e che svela terrazze e cortili stracolmi di cose (lo stesso accade a Napoli o a Lecce se si ha il privilegio di salire fino in cima a una terrazza e poter spingere lo sguardo tra i vasi di geranei, nell’ombra offerta da avventizie tettoie, in mezzo a inaspettati e funambolici passaggi tra terrazzo e terrazzo, balcone e balcone). E c’è l’Atene delle tavernes o dei caffè non omologati dal rullo compressore globalizzante, dove tavoli vecchi di decenni aspettano gli avventori e le specchiere alle pareti sono diventate opache di nerofumo. Un sorso di vino di Nemea, dolcissimo e denso, fissa per sempre il ricordo: Atene può allora ancora essere una delle capitali di un Sud mediterraneo dove la vita accade sulle terrazze, sui balconi, nei cortili interni, nei caffè (preferibilmente ai tavolini sistemati in piazza o sul marciapiede). In questo esiste forse una continuità con l’Atene antica, che aveva fatto dell’Agorà la vera anima di sé stessa. Atene inapparente, caotica e bellissima: da Exàrcheia, luogo di libertà e protestatario, stracolmo di giovani da sera a notte inoltrata, lungo odós Themistokleous leggendo sui muri le parole d’ordine della rivolta (anche violentissima e lo ricordo, lo rimarco qui perché non voglio fabbricare stupidi idilli, sdolcinati diari di viaggio scritti da chi non deve fare i conti con la disperazione) rivolta, dicevo, contro la finanza predatoria, riconoscendo nelle botteghe dove la gente rimane a lungo a chiacchierare un segno di quella voglia, altrove perduta, di stare insieme, passando per Thisìo o Peristeri fino ai quartieri del Pireo, il luogo dell’antica vocazione marinara.

 

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O può accadere che s’intuiscano i giardini interni di aranci e allori e, la sera, le finestre spalancate sull’estate facciano venire voglia di essere accolti nella casa di amici, la birra fredda nel bicchiere e ore e ore a chiacchierare. Il lettore è volentieri vittima delle proprie illusioni, per cui crede di scorgere dietro una finestra dischiusa la donna che, nella Serenata al chiaro di luna di Ritsos, canta la propria nostalgia per la vita e l’amore. Quello stesso lettore s’immagina Ghiannis Ritsos sedere nello studio della sua casa ateniese e gustare la ritrovata libertà senza mai dimenticare i compagni di confino e di prigionia, l’odore incancellabile che si porta addosso chi è stato prigioniero in un lager. Scriverebbe versi d’incontenibile ira Ritsos se vedesse la gente che dorme sul marciapiede, i bambini che chiedono l’elemosina e impugnerebbe uno degli striscioni che, nei cortei, reclamano un’altra Europa, un’altra politica e che dicono le speranze tradite e con esso impugnerebbe la poesia. Perché ad Atene (come in tutte le metropoli) la polizia sorveglia i quartieri ricchi e i luoghi turistici mantenendoli “puliti” e “sicuri”, ma basta spostarsi di pochi metri e si vede la disperazione, la miseria, s’incrociano gli sguardi della gente dimenticata. Atene dev’essere guardata con gli occhi della profondità temporale affinché possa andare in pezzi la cristallizzazione di cui scrivevo all’inizio, manifestarsi l’accogliente disordine all’interno del quale distinguere l’Atene uguale alle altre città del globo (anonima, dunque e poco interessante) e l’Atene indimenticabile dove il caffè è ancora un rito del tempo rallentato (deve posarsi lentamente sul fondo della tazza la polvere scura e aromatica, si deve bere lentamente quell’armonia di profumi) e un negozio di pezzi di ricambio per elettrodomestici è luogo d’incontro di amici chiacchieroni e curiosi della gente che passa in strada.
E torno torno c’è l’Attica la quale possiede davvero una sua dolcezza ed eleganza che sembrano aver ragione della siccità, della Canicola impietosa, Atene, punto d’arrivo e di partenza di strade antiche come il mito – l’Elefsìna, per esempio, che la congiunge a Eleusi e poi all’Istmo, ma anche, scegliendo la direzione verso settentrione, a Delfi: se ci si avvicina a Delfi provenendo dall’Attica, si fa esperienza di un cammino che sempre più allontana dal consueto: si procede spiando l’apparire delle cime del Monte Parnaso e, allorché esse cominciano a profilarsi, ci si illude di essere prossimi alla meta, ma Delfi continua a sottrarsi, come se si spostasse un po’ più in là. Occorre pazienza, la pazienza dell’attesa, bisogna continuare a salire scorgendo, in un lampo, il mare del Golfo di Corinto che subito torna a scomparire e intanto la mente tenta di raccogliere in sé (di ri-accogliere) tutto quello che della Grecia ama, posto che la Grecia significa, in questo caso, uno spaziotempo tra i più vasti e profondi, decisivi e significanti tra i molti spaziotempo di cui siamo fatti. Olivi, molti e attorti dal vento, attorno, addensàti su di una terra impervia, sempre più interna, sempre più intima, spoglia di presenze umane, visitata dalle capre (bellissime le capre di Grecia, apparizioni di vita animale sulla mineralità del suolo e tra le scabrosità dei legni dei tronchi).

 

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E per curare la mia nostalgia d’Atene spesso riascolto la musica di Eleni Karaindrou, di Charles Lloyd e di Maria Farantouri che, con voce scura e commovente, canta:

Arrostì kardià de vriskei iatreia sti lismonià –
il cuore ferito non trova guarigione nella dimenticanza,
è perduto nel freddo sù al nord in lontane terre straniere
e sempre aspetta il momento di tornare.
La barca comparirà nel porto,
un gabbiano nei nostri sogni.
Ti ha ferito di nuovo il freddo del mondo e la solitudine;
come curerai l’antica ferita e profonda nell’anima?

Avrei voluto sedere anch’io tra il pubblico dell’Odeion di Erode Attico alle pendici dell’Acropoli la sera in cui si tenne il concerto durante il quale Maria Farantouri cantò queste parole accompagnata dal sax di Charles Lloyd o quell’altra sera, nel Megaron sempre ad Atene, in cui cantò le medesime parole accompagnata stavolta al pianoforte da Eleni Karaindrou. Devo accontentarmi di ascoltare e riascoltare i bellissimi cd della ECM (Athens concert ed Elegy of the uprooting) e immaginare quelle due serate. Sicuramente è l’immaginazione a caricare i luoghi di un’aura d’incantagione, è la mente a intrecciare suggestioni intorno ai luoghi, ma l’Acropoli, alta e come sospesa nel cielo in una bella sera d’estate è una luminosa fata che non si riesce a dimenticare, incatena l’occhio e la mente; la memoria vede scorrere davanti a sé le sequenze del film di Theo Anghelópoulos Viaggio a Citera, perché il canto della nostalgia e dell’esilio accompagna il protagonista e sua moglie che mollano gli ormeggi della zattera sulla quale si lasciano spingere al largo. Citera è l’isola dei desideri e dei sogni, il film narra il conflitto (forse insanabile) tra una realtà totalmente e bassamente mercantile e gli ideali e il canto di Maria Farantouri conosce bene il dolore dell’esilio e la malinconia.

 

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Guardo le foto dei musicisti mentre provano nei giorni precedenti al concerto: dalla finestra della casa di Maria Farantouri si scorge il Licabetto illuminato e Atene scintilla nella sua sera mediterranea; in un’altra Charles Lloyd contempla, rapito, le colonne di Capo Sunio dentro una luce abbacinante e trovo commovente questo legame tra il jazz, una delle musiche più mescidate e sovranazionali del nostro tempo, e l’antichità classica. Spostarsi  poi dall’Acropoli alla Collina di Filopappo percorrendo i sentieri di Dimitris Pikionis: l’architetto utilizzò tra il 1954 e il 1957 materiale proveniente dalla demolizione di alcuni edifici nei dintorni dell’Acropoli di Atene per tracciare e lastricare i camminamenti, gli spiazzi, i luoghi di riposo tra l’Acropoli e la Collina di Filopappo  – forma e posa delle lastre venivano decisi momento dopo momento insieme con gli operai, cosicché il cantiere, che pure seguiva un progetto d’insieme, fu, proprio come la musica jazz, anche un farsi del momento e nel momento, in strettissima connessione con il luogo e la forma dei materiali, in quest’andirivieni tra idea e forma della materia, tra forma e colore del mattone o del frammento marmoreo e ideazione in loco.

 

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Si può raggiungere il Pireo da Atene con la metropolitana. Il capolinea è una luminosa stazione liberty, curatissima e ampia. Il Pireo ha pulsazioni di città meridionale: un mercato nelle sue strade dove i venditori reclamizzano a voce alta e con cantilene la merce, profumi dei pasti in preparazione nelle case, traffico disordinatissimo e, nei punti cruciali, assordante. E tante persone in strada. Il Pireo è, contemporaneamente, il porto e una città in moto perpetuo, una meridiana sulla quale il sole, luminoso fino all’eccesso, percorre solenne la mattinata e accende poi il pomeriggio. Sì, ci sono ancora i mercanti al Pireo che reclamizzano la merce con cantilene a dilatare la mattinata fino a queste pagine e un negozio di stoffe che offre penombra e frescura e come lasciato lì da altri anni, da altre felici lentezze e un fiorista la cui bottega a cielo aperto invita ad addentrarsi tra vasi di mediterranee aromatiche e olivi da piantumare in terreni bruciati dal salino e dalla Canicola, eppure nutrienti per piante così forti e coraggiose. È misurare la distanza tra tempo e tempo (proprio come si fa per i luoghi).
Con il suo occhio analitico Anghelópoulos avrà guardato i balconi ricolmi di cose, lui che ci ha mostrato anche una Grecia impervia di montagne, zattere che vanno alla deriva nei ricordi, un Nord dove la nostalgia ferisce, acuta e inguaribile: Macedonia, Epiro e poi i Balcani, quell’universo complesso e poliglotta. Mi sembra di vederlo ancora passeggiare per il Pireo e forse con lui ci sono gli amici di sempre, Tonino Guerra e Gian Maria Volonté, e discutono fermandosi davanti alle cassette di pesce appena pescato o indicandosi l’un l’altro un taglio di luce tra l’angolo di una casa e la strada o l’abbagliante curvatura del cielo. Alla maniera greca i morti non sanno separarsi dalla terra, ne hanno nostalgia e la percorrono ancora, almeno nella mente dei vivi; alla maniera greca i morti sono innamorati delle barche alla fonda nel porto, di quelle barche che hanno l’occhio dipinto a prua e la chiglia colorata (giallo, rosso, azzurro, verde, gli squillanti colori del Mediterraneo).
E si può curare quella medesima nostalgia soffermandosi sulle foto di un blog, bellissimo, qual è Athensville?

 

La foto di copertina è tratta dalla rivista online All about jazz; la seconda foto proviene dal blog Athensville, mentre la terza immagine è tratta dalla rivista online London Jazz News; la quarta foto è un fermo immagine proveniente da una pagina Pinterest dedicata al film Viaggio a Citera; l’ultima immagine proviene anch’essa da Pinterest.

 

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