Lo sguardo del fotografo coglie la vivacità d’una periferia mediterranea, tantissimi giovani che s’incontrano in strada o nei caffè, una Tel Aviv del tutto fuori dai circuiti turistici.
Potrebbe essere anche Atene o essere Barcellona, l’umile bellezza di muri dall’intonaco scrostato, un piatto mangiato su di un tavolino apparecchiato sul marciapiede, la tesi di laurea compilata al computer portatile in un angolo del bar…
Una ragazza che legge, lo specchio che lo sguardo attraversa, contemporaneamente, verso il bar e verso la strada. Ha trovato o troverà un lavoro per vivere? Forse legge i versi di Adonis, o un libro di Yehoshua. Ha un amore che la sta aspettando? Forse sta leggendo l’epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, oppure un trattato di fisica delle particelle, o uno studio di archeologia. Andrà verso il mare più tardi? E comprerà un cestino di peperoni tornando a casa?
La luce sale dal mare: questi giovani vivono nella loro quotidianità la contraddizione radicale – vogliono e sanno essere liberi, gioiosi nell’incontro, nell’attesa: e pochi chilometri verso occidente Gaza, i loro coetanei Palestinesi, il muro.
Tel Aviv, luogo della libertà, cosmopolita e tollerante.
Questa gioventù pensa Israele come possibilità nuova (e, mentre scrivo, penso e sogno il Mediterraneo come possibilità nuova): sono nipoti e pronipoti della Shoà, sono contemporanei dell’irrisolto conflitto con il Popolo palestinese, dell’opposizione totale tra fascismo e libertà, escono in strada, s’incontrano nei caffè, parlano, leggono, viaggiano.
Un mercato e ortaggi, frutta, i colori vivaci e i profumi marcati per una cucina da insaporire con le aromatiche e con l’olio d’oliva.
Vieni ti offro una fetta di anguria fresca, se preferisci un bicchiere di tè alla menta; vediamoci stasera fuori dal Caffè Albi. Verranno anche gli altri, qualcuno porterà con sé il sassofono, qualcun altro le poesie di Lorca o di Auden; nessuno se ne starà zitto a pensare ai fatti suoi.
Una giovane donna ascolta un uomo anziano raccontare: siedono su due alti sgabelli, un boccale di birra davanti a ognuno di loro; forse le racconta dei suoi giovani anni o di suo padre in fuga dall’Europa, forse le dice del generale Moshè Dayan…
– e la ragazza riflette forse, forse ha studiato in un’università europea o nordamericana, vi ha conosciuto giovani Egiziani o Palestinesi o Libanesi – forse le tornano alla mente, uno a uno, i nomi.
Faticoso, faticosissimo il lavoro al bancone del bar – vengono a raccontarti le loro storie, tu li conosci uno a uno, chiedi loro dell’ultimo esame, della loro ragazza, della madre ricoverata in ospedale…
Si baciano: e questa si chiama speranza che nasce (o rinasce) in chi li guarda. E un tacito augurio.
Questi sono i quartieri sud di Tel Aviv: qui vive un popolo cosmopolita, qui il Mediterraneo è la vita fuori di casa, il cercare altre persone e passare ore e ore con loro a chiacchierare – qui esistere significa applicare l’eresia del lasciare scorrere lentamente il tempo, del sottrarsi all’enorme macchina produttiva; in riva al Mediterraneo “perdere tempo” è, ancora, gioia del vivere. Una possibilità del vivere.
E osserva attentamente, ti prego, la foto: il disimpegno tra la cucina e la sala offre, oltre al giuoco illusionistico di cornici e trompe-l’oeil, un corteggio di oggetti semplici e emozionanti: posate, stoviglie, bricchi, mensole, vasi, portatovaglioli, pentole e padelle d’ogni dimensione, e poi ci sono i muri dipinti con spatolate di colore, i tavoli e le sedie, il polso cinto da un braccialetto del ragazzo in cucina (avrà un significato affettivo bellissimo quel sottile bracciale d’acciaio o d’argento…) – e c’è il suo gesto, elegantissimo, di versare qualcosa in un contenitore o in un piatto… Preparare il cibo, poi nutrirsene: atti sacri, solenni e umanissimi.
Nino Herman scrive di aver fotografato nel corso degli ultimi anni i frequentatori dei locali di Tel Aviv sud, (sopra tutti quelli del Caffè Albi); i quartieri sud sono porzione della città negletta e talvolta malmessa, ma ricca di umanità – afferma il fotografo che le persone s’incontrano senza giudicarsi le une le altre, senza condiscendenza, ma rispettandosi: lo si vede bene traverso il suo sguardo che genera fotografie abitate da suoni, vivacissimi colori, voci, parole, altri sguardi, intenti silenzi.
Guardo il Mediterraneo e lo guardo da Tel Aviv, da Algeri, da Palermo, da Marsiglia, da Valona: lo desidero mare di fratellanza e di dialogo.
Questi muri di periferia, queste porte basculanti da garage si offrono docili all’arte libertaria e protestataria di Blu o di Banksy – un muro lungo più di 700 chilometri per separare laggiù, muri per unire qui, finestre, strade, chioschi, l’ininterrotto chiacchierare di voci. E bombolette spray, stencil per scrivere in faccia al mondo la propria ribellione.
Un orto e un giardino coltivati dentro pentole in disuso o in catini sbreccati e colorati: così anche sulle terrazze del Salento, in Sicilia e nel Peloponneso – o su stretti balconi e in piazzuole tra due rampe di scale di tufo – Mediterraneo umile e nobile, anfratti di semplice felicità.
Guardo le foto di Nino Herman, le vado scegliendo per Carteggi letterari, copio i “link” che incollerò, poi, in calce a quest’articolo: è questa la vivace socievolezza che desidero per le genti del Mediterraneo – scatto con la mente istantanee dei volti nei centri commerciali, nei treni per i pendolari, nelle file in attesa all’ufficio postale, persino nei caffè di Lombardia e del Triveneto: sembrano polaroid ricoperte da una patina uniforme e grigia, rincagnati volti rabbiosi e invidiosi contro la vita, gli angoli delle bocche ripiegate all’ingiù, lo sguardo come pronto a scattare per un “vaffanculo” miserabile e fascista.
Mi preparo un caffè alla turca: nel bricco l’acqua e la polvere di caffè arrivano a ebollizione formando sulla superficie una schiuma luminosa e calda – poi occorrerà lasciare depositare la polvere sul fondo della tazza prima di bere.
Ho macchiato la copertina di Chourmo di Jean Claude Izzo versando il caffè nella tazza, ma pazienza: mi alzo per prendere uno straccio e metto un disco di Gianmaria Testa nel lettore cd: Da questa parte del mare…
Per arrivare da questa parte del mare le persone annegano e noi distogliamo lo sguardo.
Dall’altra parte del mare i giovani di Tel Aviv.
Mai dimenticherò una sera tarda ad Atene, Piazza Exàrcheia, tantissimi ragazzi in giro e, seduti per terra, due giovani: l’uno vendeva libri che aveva ordinato in colonne su di un tappeto, l’altro gli leggeva qualcosa da un minuscolo quaderno – il libraio ascoltava concentratissimo malgrado la baraonda intorno. Anche nel quartiere di Exàrcheia la vita si svolge in strada, i giovani animano strade sui cui muri e sulle cui saracinesche scrivono un poema di protesta e d’utopia. (Le scritture più coinvolgenti e libere vanno cercate forse fuori dai libri e vanno fatte entrare nei libri).
È bellissima e il ragazzo la guarda totalmente rapito: in ognuno di questi volti affiora una catena millenaria di nascite e di generazioni: dall’Etiopia, dallo Yemen, dagli shtetlekh dell’Europa orientale, dai pueblos di Sepharad, dalle regioni balcaniche, da quelle nordafricane, dai ghetti italiani – un mescolarsi di provenienze e di culture, occhi, capelli, tratti del viso, sfumature della pelle che sembrano raccogliere il mondo qui, nelle strade di Tel Aviv sud.
Le foto che corredano l’articolo e quelle qui non pubblicate, ma cui fanno riferimento i testi, provengono dal sito di Nino Herman e dal sito L’Oeil de la Photographie (Nino Herman: Café Albi).