I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): su “Le radici del senso” di Diego Conticello

Nel volume Poesia contemporanea – Dodicesimo quaderno italiano edito da Marcos Y Marcos nel 2015, Diego Conticello pubblica Le radici del senso (alle pagine 165 – 203 con un’ampia presentazione di Fabio Pusterla), compiendo un ulteriore passo nella sua ricerca poetica rispetto al libro d’esordio Barocco amorale edito nel 2010 con LietoColle – scrivo questo perché sono convinto ci sia in gestazione un nuovo, ampio libro e la silloge contenuta nel quaderno italiano sia un frammento, ovvero un’anticipazione di tale lavoro; credo d’individuare nella scrittura di Diego una coerenza di sviluppo che non esclude, però, delle tappe ben caratterizzate e ben distinte tra di loro – da quell’incipit indimenticabile di Barocco amorale (“Pioggono / i tuoi occhi“) e, quindi, da invenzioni linguistiche che vogliono dischiudere più direzioni alla parola poetica e dalla precisa volontà di congiungere la tradizione lirica (in particolare quella erotica) con le più avanzate acquisizioni poetiche contemporanee, si approda a una silloge nella quale la parola non ha più bisogno di reinventarsi, ma, affidandosi alla precisione dei ritmi e delle scansioni, esprime l’universo concettuale e sentimentale del poeta, anche dispiegandosi sotto una sorta di costellazione di cui fanno parte autori di riferimento per Conticello, ch’egli studia e con i quali dialoga incessantemente: Pusterla, Scandurra, Piccolo, Castaldi, Ripellino, Consolo, Freni, Cattafi, De Vita, ognuno di essi (insieme con Giulia) dedicatari di un testo della raccolta (le composizioni sono in tutto 24), senza dimenticare i due exergo rispettivamente di Yeats e di Lucio Piccolo (autore quest’ultimo, è noto, cui Diego si sente particolarmente vicino). Le radici biografiche e culturali cercano in tal modo espressione nella direzione di un essere e riconoscersi Siciliano, ma in modo del tutto aperto rispetto alle altre aree geografiche e alle ricerche poetiche contemporanee; il tema è arduo e attuale, il tentativo coraggioso e di grande valore, perché si tratta di trovare l’esatto punto di equilibrio tra un sentimento d’appartenenza e il rifiuto di ogni provincialismo o chiusura – le radici del senso (e il senso delle radici, come con opportuno e significativo rovesciamento si chiama l’ultimo componimento della silloge) affondano nella questione esistenziale, in quella geografico-biografica, in quella culturale, come se Conticello volesse attuare una descensio ad inferos, un’operazione di tabula rasa (che non significa, però, né distruzione né consegna all’oblio e che necessita d’una forte e radicale presa di coscienza), una de-costruzione che mira a una ri-costruzione.

 

MIRANO

 

E infatti, ecco, subito

La distruzione delle cose (a Fabio Pusterla)

Riflessi,
nuovamente piegati
soggiogati buoi/bestie
alla morsa del tempo,
al buio come morte.

La distruzione delle cose.

E i nomi lì a rifulgere,
rifiutare di piegarsi,

di nuovo fare luce
(pag. 176).

Breve, quasi scolpito sulla pagina bianca questo componimento, ma capace di enucleare un metodo e un fine, una dichiarazione di poetica, il farsi poetico mentre afferma sé stesso: nominare è atto di poesia e di conoscenza par excellence, il porsi di fronte al mondo e chiamare, nominare, dire. Decisivo viene a essere così il rapporto tra poesia e reale:

Se il reale / (…) / non è limite / ma solo fascinosa / varianza / d’un impossibile altrove” (pag. 177) dice con raffinatezza (splendido il vocabolo “varianza”) il ruolo dell’arte se sa cogliere variazioni, risonanze, suggestioni, allusioni generate proprio dal limite apparente, la qual cosa è, a ben rifletterci, splendida prerogativa della mente umana. Non è allora ozioso quadretto il componimento a seguire:

Matita

Ogni tanto
imprendo a fumarmi
la matita,

carbonato incanceroso,
graffio di grafite,
sferzante
verde senz’erba
(che non manda in fumo
il cervello)

chiodo per appuntare
l’attimo che preme,

cancellabilità,
mina del mondo
(pag. 183).

Quella di Conticello è una scrittura sospesa tra la labilità dell’esistente e il dire in poesia, tra ironia ed estrema serietà dello stare-con-la-scrittura-nel-mondo; c’è qualcosa di gnomico in taluni testi, proprio perché l’ironia non esclude serietà d’atteggiamento e d’intenti:

Non credere

Non credere alla misura,
all’abbocco finale che fa
vivo
il succo del mondo.

Sentire nel colore
musicato,
in un suono
ingiallito

il volatile
essente delle cose
(pag. 185).

E le invenzioni verbali sono funzionali alla ricerca di senso:

Cosmagonia

(…)

entropia
non è piacere
di belle metafore e brune
ma morte della luce,
fuga da grazia
materna,
totale penetrazione
del gelo
(pag. 187).

La luce, il lutto s’intitola un memorabile libro di Gesualdo Bufalino, a voler esprimere già subito la verità di un’isola inondata di luce e consapevole proprio per questo dell’ombra e del buio – così come ricorrente è la dialettica luce-buio, chiarezza-enigma nella poesia di Lucio Piccolo – non è un caso che i versi geniali Mobile universo di folate ispirino questa composizione di Diego Conticello la cui scrittura, perfettamente e modernamente europea, non può non tenere conto della tradizione siciliana (e italiano-meridionale), ma la rinnova nel portarla a confrontarsi con il tema dell’entropia (il quale non riguarda, lo sappiamo, soltanto l’ambito della fisica), per cui entropia è “morte della luce“, “fuga da grazia / materna“, non semplice e innocuo espediente retorico – questo significa condurre con forza la poesia a fare i conti con il decadere e il distruggersi del mondo. E il cosiddetto Barocco che in varie forme affiora nella scrittura di Diego è, in modo preciso, il congiungere una tradizione che, traverso un linguaggio fortemente metaforico e incessantemente inventivo, tenta di rappresentare un universo complesso e in continuo mutamento e la realtà a noi contemporanea, altrettanto complessa e spesso sfuggente (“liquida” dice un termine molto di moda), così come cerca di descriverla la fisica la quale parla sempre più spesso e insistentemente ai poeti sia per una sua connaturata attitudine immaginifica sia per gli orizzonti che continua a dischiudere sulla realtà dentro la quale siamo letteralmente immersi. In tal senso proprio Piccolo, Ripellino e Cattafi costituiscono un gruppo di autori che, magistralmente possedendo e reinventando la lingua italiana, dotati di una sconfinata cultura, alimentano una “linea poetica” che, anticronachistica e avversa alla noiosa, insipida tendenza verso la mimesi del parlato, si rivela altamente immaginifica e curiosa anche degli aspetti più enigmatici e ombrosi del mondo.

 

MIRANO 3

 

Molte immagini metaforiche derivano dalla natura siciliana e continuano il tema dell’entropia:

Della naturale resistenza (a Natàlia Castaldi)

La leuca infiorescenza
del pomodoro
non presagisce pesantezza
alcuna
ma lo stelo gracile sa,
dunque s’alza,
estende la fisica del possibile
e resiste
alla graverìa dei frutti venienti.

Così l’esistenza
d’ogni creatura minima
anche infima

(effimera o effemeride)

rocciosa e lustra,
pulsante

in sfregio al mondo
(pag. 188)

e, più oltre, leggiamo in Sta a noi:(…) Il frutto squisito della mente, / la duramadre / vista oltre la scorza” (pag. 189); il frutto del fico d’india è immagine del pensiero, squisito e costretto a difendere sé stesso nella corazza della buccia spinosa, visibile solo a chi sa vedere “oltre la scorza” e il Sud è un verbo della prima coniugazione in -are:

Sud-are

La prima coniugazione
del dolore, l’amaro
nostro innato
annaspare,

l’innesto di genti subìto
nelle ere,

il peso della storia
che invita – ora –
caldamente a scappare,

un groppo silente
che ci fa complessi e nomadi
nel mondo,
lanciati verso

il niente,

sebbene ancora sottomessi
(pag. 198)

 

MIRANO 2

 

Meno persuasive mi sembrano quelle composizioni o quei passaggi in cui le scelte lessicali appaiono forzate o sorrette da eccesso di sperimentalismo linguistico (“Voglio frustare / quadrighe di / endorfine / sui sentieri / porporini / del tuo sangue” in Genesi della chimica amorale a pagina 190, la quale riporta per una sorta di autocitazione a Barocco amorale anche per la scelta dell’aggettivo amorale che in maniera volutamente ambigua contiene in sé sia il concetto di a-moralità, ma pure la parola amore; “mass(ahi)e” e “mari/o/nette” in L’evidenza dei vinti a pagina 201, anche se proprio di quest’ultima composizione Fabio Pusterla offre un’esegesi magistrale mettendone in evidenza la complessità e talvolta la cripticità dei riferimenti storici, politici e sociali), confermando il fatto che questa silloge è un punto di passaggio tra l’opera prima e un nuovo libro capace di armonizzare meglio l’esigenza sperimentalistica di Conticello con una pronuncia personale e nettamente identificabile; Diego raggiunge risultati convincenti, penso, ogni volta in cui si libera del timore di risultare “provinciale” o “arretrato”, quando si affida a un suo istinto che lo conduce verso la parola grazie a un’interiorizzazione delle lezioni apprese dai maestri e non più per una costante volontà di applicare i loro insegnamenti, di esserne fedele allievo; ma la libertà espressiva è, si sa, un processo lungo e difficile e un altro aspetto positivo della raccolta consiste anche nel fatto che Conticello paghi (ma ho l’impressione lo faccia volentieri per una sorta di riconoscenza e di fedeltà) un pegno ai propri modelli. E non stupisce che l’ultima parte, Il senso delle radici, articolandosi in due composizioni (All’evidenza dei vinti e ‘A parola), si snodi nel nome di Melo Freni, Bartolo Cattafi e Nino De Vita e presenti significativi innesti dal dialetto siciliano, proprio perché provinciale è chi rifiuta le proprie radici, chi se ne vergogna o le crede antimoderne, quando, invece, proprio la Sicilia, terra culturalmente stratificata e complessa, dimostra che il futuro sta anche nella memoria, che il dialetto stesso è rivoluzionario in quanto si sottrae al livellamento politico e culturale, alla normalizzazione linguistica in atto.

(…)

e, a cunchiusiuòni, ti lassa ‘nzalanùtu
comu un mmuccalapùni
quannu talìa
‘na fìmmina
senza putìlla strìnciri,
un labbru ca nun si fa vasàri

(…)

e, in conclusione, ti lascia sbigottito (esterrefatto)
come un mangia api
quando guarda
una femmina
senza poterla stringere,
un labbro che non si lascia baciare
(pagg. 202 e 203).

 

Le illustrazioni che corredano l’articolo sono tutte di Lorenzo Mattotti e provengono dal suo sito.

 

 

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