Bellocchio e le ferite di un figlio

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Presentato alla “Quinzaine des Réalisateurs” di Cannes, il nuovo film di Marco Bellocchio continua lo scandaglio interiore e la spinta verso le suggestioni psicoanalitiche che caratterizzano il suo cinema. Leone d’oro alla carriera a Venezia, l’autore di titoli come “I pugni in tasca”, “La Cina è vicina”, “L’ora di religione” e “Vincere”, lungo una filmografia cominciata nel 1965, fa suo quasi del tutto il romanzo autobiografico del giornalista Massimo Gramellini, “Fai bei sogni”, e racconta in chiave personale il trauma di un bambino di nove anni.

 Un bambino, Massimo, che perde la madre il 31 dicembre 1969 e che solo da adulto potrà accettare la verità di quella morte. Il film segue più piani temporali, dal protagonista bambino e poi ragazzino allo stesso da giovane e da adulto, quando ritorna nella casa dell’infanzia e adolescenza, lì dove è tutto avvenuto. Ciò che rende coinvolgente “Fai bei sogni” è la regia potente di Bellocchio, il suo sguardo visionario e il viaggio interiore, incarnato da un interprete introspettivo come Valerio Mastandrea, scandito da poche luci e molte ombre, chiaroscuri, incubi e fantasie infantili che aiutano a vivere. A resistere in un mondo, quello degli adulti, anaffettivo e fragile, incapace di sostenere chi è più piccolo di fronte al dolore e al mistero di una scelta.

Qua e là, soprattutto nelle parti dedicate al giovane Massimo e al suo viaggio da reporter a Sarajevo, il racconto per immagini rischia di perdersi o destare meno interesse. Inoltre, in alcune sequenze, regista e sceneggiatori – lo stesso Bellocchio, Valia Santella (“Mia madre”) e lo scrittore Edoardo Albinati (il romanzo Premio Strega “La scuola cattolica”) – scelgono una strada narrativa più convenzionale e il personaggio impersonato da Bérénice Bejo (“The Artist”), pur affascinante, ha un che di irrisolto.

Tuttavia, la forza visiva delle immagini, con atmosfere di dubbiosa lacerazione, risulta prevalente. Complici la fotografia curatissima e variegata di Daniele Ciprì e la scenografia di Marco Dentici, con le musiche di Carlo Crivelli, i tanti attori sullo schermo rendono al meglio: Barbara Ronchi (la madre, in scene del passato di rara intensità, al fianco del piccolo Nicolò Cabras), Guido Caprino (il padre), Roberto Herlitzka (sempre una presenza straordinaria), Fabrizio Gifuni, Roberto Di Francesco, Giulio Brogi, Manuela Mandracchia, Pier Giorgio Bellocchio, Miriam Leone e, in un’unica immagine (e soprattutto in un’unica battuta) ma da ricordare, Piera Degli Esposti. Tutti fantasmi di un mondo enigmatico, tra dolore, senso di morte, ossessioni religiose e umane, pianti trattenuti troppo a lungo e un desiderio di vivere nonostante le ferite e gli inganni. Nel segno di un doloroso passaggio all’età adulta, accettando le profonde ingiustizie del vivere.

 

Marco Olivieri

 

Buona parte della recensione è tratta dalla rubrica Visioni del settimanale 100nove Press (17 novembre 2016).

Fotografie di Simone Martinetto: Leggi qui a cura dello Studio PUNTOeVIRGOLA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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