Indivisibili

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Viola e Dasy sono due gemelle siamesi. Hanno diciotto anni e la loro simbiosi è suggellata da una carriera precoce di cantanti apprezzate nella periferia campana e scrutate con morbosità a causa del loro legame indissolubile. Su di loro vigila, anzi domina, un padre padrone, che si definisce un poeta della canzone e sperpera tutto ciò che le figlie guadagnano, in un contesto familiare e in un mondo, quello degli adulti, senza speranza.

Una periferia, a Castel Volturno, dove preti affaristi, manager cinici, migranti assorbiti nel degrado, alimentano una realtà fatta di sfruttamento, manipolazione, denaro sporco, statue di Cristo soppiantate da nuove statue, per celebrare finti culti, e occhi chiusi nei confronti delle ragioni degli altri.

Così, quando un medico sostiene che le due ragazze potrebbero essere separate senza rischi, si rompono gli equilibri e la cattiveria del padre e la debolezza della madre non riescono ad arginare la spinta al cambiamento di Dasy, mentre Viola teme di perdere il rapporto simbiotico. Racconta tutto questo e molto altro, “Indivisibili”, presentato alle Giornate degli Autori della 73esima Mostra cinematografica di Venezia, ottenendo tra i vari riconoscimenti il Premio Pasinetti come miglior film, e al Toronto International Film Festival.

Da un soggetto di Nicola Guaglianone (sceneggiatore di “Lo chiamavano Jeeg Robot”), liberamente ispirato a una storia vera, la regia di Edoardo De Angelis (“Mozzarella Stories”, “Perez”) e la sceneggiatura di Guaglianone, Barbara Petronio e De Angelis, con la fotografia di Ferran Paredes, creano atmosfere psicologiche dove individuo e spazio circostante interagiscono. Ben calibrato sul piano cromatico, della composizione dell’immagine e dei movimenti della macchina da presa, “Indivisibili” provoca tensione narrativa senza perdere l’attenzione alla vita interiore delle protagoniste (le esordienti Angela e Marianna Fontana) e una forza espressiva adatta per suggerire periferici degradi umani. La freschezza delle ragazze si contrappone a un universo desolato, tra immagini in chiaroscuro e sfumature teatrali della lingua campana, con i sottotitoli in italiano.

 

Si alternano elementi di grottesco nero, con tanto di omaggio a Marco Ferreri ma senza spingere fino in fondo il pulsante del disturbante, di tocco visivo e antropologico che potrebbe ricordare il cinema di Matteo Garone e pure di genere (la fuga in mare delle protagoniste). Nella seconda parte, in qualche sequenza, esiste il rischio di scivolare nel già visto (la dissolutezza nella nave del manager Ferreri) ma rimane fino alla fine un tocco dolceamaro convincente in relazione alle ragazze, riprese dando loro forza figurativa. Inoltre, anche se qualche dialogo (nella prima parte) tra il padre e i familiari rischia di essere quasi “teatrale”, su tutto prevale una lucida spietatezza sui rapporti umani e sul desiderio degli adulti di imprigionare le sorelle siamesi, di relegarle a fenomeno da baraccone per processioni tutt’altro che spirituali, rendendo il film omogeneo e artisticamente credibile. L’epilogo conferma il rilievo maggiore per le atmosfere sospese e una narrazione tra il psicologico e la suggestione visiva.

Completano il cast, di valore, Massimiliano Rossi (il padre), Antonia Truppo (la madre), Tony Laudadio, Marco Mario De Notaris, Gaetano Bruno, Gianfranco Gallo e in una partecipazione Peppe Servillo. In più, oltre alle canzonette zuccherose (scritte dal padre), che cantano le due siamesi, si fanno notare le musiche di Enzo Avitabile, colonna sonora adeguata per un film che racconta il disagio di vivere attraverso la potenza espressiva delle immagini.

Una parte della recensione è stata pubblicata su 109press del 6 ottobre 2016, rubrica Visioni.

 

Per conoscere la vera storia delle sorelle siamesi Violet e Daisy cliccate QUI

 

Le fotografie sono tratte dalla pagina Facebook del film.

Marco Olivieri

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