"Vizio di forma"

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Marco Olivieri parla di “Vizio di forma”, film di Paul Thomas Anderson, regista di “Magnolia” (pubblicato il 20 marzo 2015).


Un mondo folle, assurdo, drogato, destinato alla dissoluzione ma raccontato con ironia e gusto del grottesco. “Vizio di forma”, il settimo film di Paul Thomas Anderson, il regista californiano di “Magnolia” e “The Master”, è una lezione di cinema. Tanto la storia sembra sgangherata e improbabile quanto affiora, in ogni inquadratura, lo spessore filmico del suo artefice. Il suo senso della visione, la profondità del suo sguardo di inquieto cineasta e la bravura di Joaquin Phoenix nella sua adesione al personaggio di Larry Sportello “Doc”.

Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon e scritto dallo stesso Anderson, il film racconta la crisi (delle speranze, delle idee, dell’ottimismo e della fiducia) degli anni Settanta, tra droghe e confusione esistenziale. Il tutto in una chiave stilistica che mescola Altman, Chandler, i Coen, l’immaginario dell’epoca, la musica e  gli stordimenti, la storia statunitense (da Nixon al governatore Reagan), la corruzione e l’autodistruzione, in un insieme artisticamente ispirato, dove regia e fotografia (firmata da Robert Elswit) creano soluzioni visive di rara qualità.

Come hanno sottolineato Emiliano Morreale (su “l’Espresso”), lo scrittore Nicola Lagioia e Christian Raimo (su www.internazionale.it), “Vizio di forma” è un’opera d’arte dai significati molteplici. Affiora un brandello di umanità, tra le pieghe, come unico spiraglio rispetto a una realtà storica ed esistenziale lacerata, tra orrori come le sette di Mason e complotti giudiziari inestricabili, in un 1970 che potrebbe assomigliare a un presente privo di punti fermi.

Se il regista sceglie ancora Phoenix come interprete perfetto per esprimere smarrimento e tragicomica indifferenza alle regole del vivere, gli altri attori – da Benicio del Toro e Owen Wilson a Reese Whiterspoon e Katherine Waterston – funzionano al meglio in un linguaggio visivo che assume la stessa sostanza complessa del materiale narrativo. Escluso dalle statuette agli Oscar, il film conferma il cinema disturbante e creativo di Paul Thomas Anderson.

Marco Olivieri

Dal settimanale “Centonove” del 12 marzo 2015

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