L’Aleph – L’avventura e il paesaggio come personaggio

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Francesco Torre sulla poetica di Michelangelo Antonioni (pubblicato il 6 marzo 2015).


L’Aleph
L’avventura e il paesaggio come personaggio

«In questo film il paesaggio è una componente non solo indispensabile, ma quasi preminente»[1].
Michelangelo Antonioni

È opinione condivisa pressoché unanimemente che il paesaggio, nella poetica antonioniana, non funga da semplice sfondo ma condizioni tutti gli elementi filmici. Nel film L’avventura, addirittura, l’ambiente naturale merita di essere considerato a tutti gli effetti un reale protagonista, un personaggio con una propria presenza fisica. La conferma di questo statuto del paesaggio, come entità autonoma e presenza narrativa, la offre d’altra parte lo stesso Antonioni, regalando all’isola di Lisca Bianca uno sguardo, o addirittura forse più sguardi: si tratta di quelle che la critica antonioniana ha definito «soggettive senza soggetto», ovvero sguardi ciechi, interstizi di decostruzione del senso che rappresentano il vero tema, dal punto di vista semantico, di questa ancora oggi modernissima opera cinematografica. L’assenza di una lineare progressione drammatica, così come la mancanza di una struttura omogenea, sono infatti alla base di una vera e propria rappresentazione del nulla (configurato come il «rifiuto di un senso che rinvii ad altro»[2]), in cui le immagini acquistano un valore autonomo, il cui senso è affidato al caos procurato dall’azione multidirezionale dei protagonisti nello spazio. Inutile dire come il paesaggio, in questa dimensione, assuma un ruolo fondamentale, perché è ciò che più profondamente simbolizza il vuoto strutturale, l’impossibilità dell’esplorazione della realtà, il vitalistico ma inutile movimento senza centro. Ed è proprio qui, probabilmente, la vera intuizione de L’avventura, la novità che lo rende un film unico e moderno: la perdita del centro.

Che tale rivelazione (e rivoluzione) linguistica abbia a che vedere con il paesaggio siciliano non è certo un caso, e ciò è confermato dai continui ritorni cinematografici del regista in Sicilia. Il paesaggio attraversato da Sandro e Claudia, quello stesso paesaggio che ha inghiottito Anna senza lasciare alcuna traccia, rappresenta infatti senza alcun dubbio uno dei luoghi simbolo della ricerca estetica di Antonioni, emblema di quell’essenza irraggiungibile e mai rappresentabile con cui il regista farà qualche anno dopo i conti tramite gli ingrandimenti di Blow-up.
Abbiamo già detto di come il risultato dello scontro mortale tra uomo e natura ne L’avventura sia inevitabilmente la perdita di uno sguardo centrale, antropocentrico. Il kosmos, quel mondo armonioso che trova una definizione proprio tramite lo sguardo dell’uomo, si trasformerebbe in questo modo in kaos, un’imprevedibile e policentrica serie di eventi. Eppure nella prospettiva antonioniana il kosmos si rivela in quanto finzione, ed assume un valore negativo, mentre il kaos viene vissuto come una forza naturale ed eversiva, quasi cosmogonica, del tutto positiva. La natura ormai rivelata è ostile, arcaica, terribile, “dionisiaca”, ma permette che l’esperienza vissuta dai protagonisti del film assuma un significato molto profondo: usando le parole di Sandro Bernardi, tra i massimi esegeti della poetica antonioniana, essa diventerebbe «uno spingersi alle soglie dell’ignoto»[3], un viaggio alle origini dell’uomo. Ed è proprio qui, nella terra del mito, che si consuma lo scontro Natura – Cultura, che si risolverà in favore del primo elemento. La materializzazione della sconfitta è la perdita di uno sguardo oggettivo, univoco, e – di conseguenza – la fuoriuscita del kaos. Ciò è dimostrato dalla «soggettiva senza soggetto» che apre l’episodio di Lisca Bianca. Da quel momento, infatti, gli sguardi del/dal/sull’isola si moltiplicano, si autonomizzano e prevalgono. Ciò è confermato dalle false soggettive dell’episodio di Noto, tra le stradine deserte in cui si ha costantemente l’impressione di essere spiati o di spiare. Ed è infine provato ancora una volta dal campo lunghissimo del finale di Taormina, con l’inquadratura divisa perfettamente a metà: da un lato l’Etna imbiancato di neve e dall’altro un semplice muro, elementi diseguali e disarmonici ai quali il regista consegna il destino dei due protagonisti e insieme il senso di un enigma mai svelato.

Cosa rappresenta dunque il paesaggio siciliano nell’opera di Antonioni? Sicuramente il luogo di un’epifania, di una rivelazione improvvisa che ha cambiato per sempre la poetica del regista, votata da quel momento in poi alla ricerca dell’insondabile, di quell’immagine che si nasconde dietro un’altra immagine, che a sua volta ne cela un’altra, in un circolo infinito che si conclude soltanto quando si arriva all’immagine primigenia, che nessuno è destinato né a vedere né a rappresentare: l’Aleph.
Prima lettera dell’alfabeto ebraico, l’Aleph è il microcosmo dei cabalisti e degli alchimisti, il punto dello spazio che contiene tutti i punti. Già lo scrittore Vincenzo Consolo in passato ha voluto utilizzare questo termine per descrivere l’elemento magico, metafisico, trascendente che è intrinseco nel territorio siciliano, e le sue parole risultano illuminanti se accostate a quanto detto precedentemente a proposito de L’avventura e della poetica antonioniana:

«La Sicilia, il prodigioso e antichissimo grembo di questa terra contiene, per chi sa trovarlo, l’Aleph, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi, la storia che contiene tutte le storie»[4].

Alla luce di questo concetto, potremmo a ragione tentare di ridefinire gli estremi di quel “discorso dello sguardo” che è stato sin dagli anni ’60 un caposaldo del ragionamento critico intorno all’opera antonioniana, e intendere l’ossessione costante del regista ferrarese per l’immagine rivelata come la ricerca dell’Aleph. La Sicilia, allora, si confermerebbe come l’approdo naturale di questa esperienza esistenziale prima che cinematografica, il luogo fisico e mentale di un’epifania che il regista saprà e vorrà rievocare fino al termine della sua avventura artistica.

Al fine di rendere più tangibili queste affermazioni, è possibile soffermarsi su alcuni aspetti figurativi che il film mette in evidenza, e che rendono il paesaggio siciliano una figura quasi dinamica, misteriosamente informe ma profondamente viva. Il contrasto Natura – Cultura viene infatti formalmente rappresentato mantenendo costantemente in campo l’elemento naturale, sia esso la nuda roccia, l’orizzonte infinito oppure un’isola all’orizzonte. I personaggi del film sembrano così prigionieri di un mistero impenetrabile, accerchiati e vittime di un “disegno” misterioso, quasi sempre schiacciati da ammassi di rocce vulcaniche antropomorfe o da sconfinati orizzonti. Più volte, inoltre, la Natura sembra ostentare di fronte ai personaggi la propria simbolica enigmaticità: ricordiamo almeno gli esempi di Corrado, il quale si sofferma a contemplare dei cocci appartenenti, forse, ad antiche civiltà, e quello ancora più emblematico di Claudia, che posa il proprio sguardo disperato su due ramoscelli, uno ancora diritto, l’altro piegato dal vento e dal progredire delle stagioni, osservandoli come se contenessero un messaggio segreto, come se rappresentassero qualcosa. E se è vero che il kosmos, mondo equilibrato e reso armonioso dall’uomo (ma crediamo di non essere in errore quando sosteniamo che in Antonioni, almeno da Il Grido in poi, il kosmos non sia mai rappresentato) si trasforma inspiegabilmente in kaos, con il conseguente liberarsi degli eventi naturali e la perdita del centro, non è, invece, vero che lo sguardo “politropo” del paesaggio non ci dà dei puntuali riferimenti a proposito del presunto “mistero” che avvolge, per esempio, la sparizione di Anna sullo scoglio di Lisca Bianca. Anzi, crediamo che proprio nel procedimento tipicamente antonioniano di tracciare delle linee ottiche indipendentemente dai movimenti dei personaggi, dando così assoluta autonomia alla libera funzione dello sguardo, si annidi la volontà di creare dei misteriosi ma simbolici sentieri grafici nello spazio piatto dell’isola.

In conclusione, se ammettiamo che L’avventura faccia del paesaggio e della scoperta del visibile il suo stesso tema, dobbiamo conseguentemente ammettere che il vero protagonista del film di Antonioni sia proprio la Sicilia (non a caso il titolo pensato inizialmente dal regista per il film era proprio L’isola, anche se quasi certamente con particolare riferimento a Lisca Bianca), qui rappresentata da alcuni dei suoi luoghi maggiormente pieni di fascino: le Isole Eolie, con le sua figure demoniache disegnate dai profili antropomorfici delle rocce, come esseri mitologici a protezione di un segreto custodito nelle profondità della terra; Noto, che con la sua sfrontata bellezza rievoca nostalgicamente i sogni infranti dell’architetto mancato Sandro; Taormina, con il suo lusso e il panorama sull’Etna, sicuramente il luogo dove si fa più stridente il contrasto tra Natura e Cultura e i protagonisti vengono schiacciati da un’ansia vitalistica soppiantata alla fine da una sostanziale quanto enigmatica inerzia; Messina, infine, che in contrapposizione allo scoglio di Lisca Bianca rappresenta il luogo in cui si manifesta in tutta la sua sfolgorante volgarità la Cultura intesa come evoluzione (o involuzione, se adottiamo lo sguardo decadente e autodistruttivo mostrato da Antonioni nei successivi La Notte e L’Eclisse) della società di massa e dei suoi costumi, costituendo in questo senso – pur nella sua brevità – anche un estemporaneo quanto probabilmente involontario documento storico di inestimabile valore.

Francesco Torre

Foto di copertina: Scena dal film L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni.


Note:

[1] Michelangelo Antonioni, Fare un film per me è vivere, cit., p. 76.

[2] Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano – 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Bari, Editori Laterza, 1991, p. 275.

[3] Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 161.

[4] Vincenzo Consolo, in Viaggio in Sicilia, Palermo, Assessorato Beni Culturali Regione Sicilia, 1990.


 

Bibliografia:

  • Michelangelo Antonioni, L’Avventura, Bologna, Cappelli Editore, 1960.
  • François Morin, in Humanitè dimanche, 25 Settembre 1960.
  • Lorenzo Cuccu, La visione come problema, Roma, Bulzoni Editore,1973.
  • Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Firenze, Il Castoro Cinema, 1974.
  • Carlo Di Carlo, Michelangelo Antonioni, volume 1, 1942-1965, Ministero del Turismo e dello Spettacolo.
  • Giorgio Tinazzi (a cura di), Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Parma, Pratiche Editrice,1985.
  • Joelle Mayet Giaume, Michelangelo Antonioni, le fil interieur, Crisnée, Editions Yellow Now, 1990.
  • Aldo Tassone, I film di Michelangelo Antonioni, Roma, Gremese Editore, 1990.
  • Vincenzo Consolo, in Viaggio in Sicilia, Palermo, Assessorato Beni Culturali Regione Sicilia, 1990.
  • Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere, Venezia, Marsilio, 1994.
  • William Arrowsmith, Antonioni. The poet of images, Oxford, Oxford University Press, 1995.
  • Lorenzo Cuccu, Antonioni. Il discorso dello sguardo e altri saggi, Pisa, Edizioni ETS, 1997.
  • Céline Scemama-Heard, Antonioni: le désert figuré, Paris, L’Harmattan, 1998.
  • David Riannetti, Invito al cinema di Antonioni, Milano, Mursia, 1999.
  • Vittorio Giacci (a cura di), L’Avventura ovvero l’Isola che c’è, Lipari, Edizioni del Centro Studi, 2000.
  • Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002.
  • Carlo di Carlo, (a cura di), Il cinema di Michelangelo Antonioni, Il Castoro, 2002.

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