La fine del leaderismo e delle sue illusioni

Renzi

 

Un’analisi di Nicola Bozzo

 

Facciamo un piccolo passo indietro: il risultato delle Europee del 2014 (non un’altra era geologica). Alfredo Reichlin, con la sua lucida autorevolezza scrive così (http://www.unita.it/politica/elezioni-2014/voto-renzi-vinto-partito-nazione-evento-italia-europa-argine-garanzia-sinistra-grillo-protesta-stato-1.572042): “Ragioniamo un momento: che cos’è un voto che in certe zone, soprattutto le più avanzate, supera il 40 per cento e si avvicina alla maggioranza assoluta? Di questo si è trattato. Di qualcosa che va oltre il voto per un determinato partito ma che non può nemmeno essere assimilato a certi plebisciti per un uomo solo al comando. A me è sembrato il voto per una forza che è apparsa agli occhi di tanti italiani (anche non di sinistra) come un argine, una garanzia. Contro che cosa? Ecco ciò che ha commosso e colpito un vecchio militante della sinistra come io sono. L’aver sentito che il Partito democratico veniva percepito come la garanzia che il Paese resti in piedi, che non si sfasci, che abbia la forza e la possibilità di cambiare se stesso cambiando il mondo. (…) Era perché la crisi italiana era giunta a un punto estremo. Non era solo una crisi economica e sociale. Era diventata una crisi morale, di tenuta della democrazia repubblicana e parlamentare. Questo era il tema delle elezioni. E qui io ho misurato il grande merito di Matteo Renzi. Non è vero che faceva il gioco di Grillo scendendo sul suo terreno, come qualcuno mi dice”.

Ecco la versione autentica e fondativa del Partito della Nazione, la cui successiva interpretazione renziana è stata poi disattesa, ma questo poco importa adesso.

Che succedeva allora? È evidente che il montare della forza del Movimento 5 Stelle, erede legittimo nello scenario italiano di quei fenomeni figli delle società della crisi variamente configuratisi in Europa, viene interpretato come l’irruzione di una irrazionalità devastatrice. Se ne possono comprendere le ragioni “originarie” ma occorre fermarne il potenziale dissolutivo: questa l’analisi. Il Partito Democratico, in quel frangente, viene letto, se posso usare l’espressione, come portatore di una sorta di “umanesimo nazionale”, come una forza che tiene in qualche modo unita una nazione, dentro un sistema democratico-pluralista.

L’analisi era in verità viziata da un presupposto non espresso: la forza della politica di riuscire a “tenere” una società che invece moltiplicava i suoi movimenti interni nel senso della disgregazione anomica, della individualizzazione della crisi sociale, nella totale perdita di riferimenti “comuni”. E nella dissoluzione di vecchie appartenenze e garanzie.

Questa funzione di civilizzazione nazionale che il Pd doveva svolgere, e che ha infranto, viene anche richiamata da Ezio Mauro nel suo approfondimento di oggi (http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/mauro_elezioni-142473406).

Ma, in effetti, il terreno reale, la strutturazione del campo politico che Renzi ha cercato di imporre, qual è stata?

Innanzitutto, ed è la sua cifra “genetica”, il “futurismo leaderistico”. La “rottamazione” è termine meccanico e brutale, fa il verso cercando di mimarlo e superarlo alla furia iconoclasta che sale dalle viscere dello smarrimento sociale e civile, è la rottura di ogni memoria, perfino del senso del tempo storico. Irrimediabilmente legato a questo, vi è la trasformazione del discorso politico, collocandolo nella velocità e novità delle decisioni.

Nello spazio insondabile della comunicazione senza centro, deve affermarsi non il fatto in sé ma l’idea della velocità del cambiare tutto, lavoro, scuola, amministrazione, fino alla innovazione simbolicamente più dirompente e nello stesso tempo più ambita: l’euforia della riscrittura costituzionale.

La competizione sul terreno “futurista” è del tutto collegata alla costruzione di un argine, però, dentro un modello unico, ai Cinquestelle. Il lanciafiamme è forse più ardito del vaffanculo.

È perfino infantile capire che, se si struttura così il campo politico, alla fine si perde, perché si afferma il modello futurista originale e non la sua emulazione, fatta comunque dentro “il sistema”.

Qui possiamo collocare il nodo strategico comprovato da queste elezioni: non regge, non ha retto, non reggerà la propaganda fondata sul ricatto morale-politico, ovvero: solo il Pd può reggere l’ondata altrimenti  “barbarica” del grillismo, la rivendicazione cioè di un bene supremo leggibile così: o noi o l’ abisso. È il modello francese della “lealtà repubblicana” contro lo sciovinismo lepenista.

Non  poteva reggere e non ha retto: la percezione diffusa dei Cinquestelle non li identifica minimamente come un pericolo “eversivo”. E non potrà essere il cuore della competizione bipolarizzata e incostituzionale dell’Italicum. Non regge insomma la speranza di un bipolarismo fittizio che si giochi sul crinale razionalità democratica contro il salto nel vuoto del disfacimento generale.

Renzi ha certamente alle spalle i fallimenti per ondate successive della Sinistra italiana diciamo post-comunista fino alla fondazione di un partito, il Pd, legato solo dai tanti file dell’ antiberlusconismo, fili tenui e leggeri che dopo la fine del berlusconismo diventano fatti di niente e rendono quel partito totalmente acefalo, privato della sua ragione sociale.

Il presidente del Consiglio e segretario ha tentato l’unificazione leaderistica di partito e Paese. E ha perso. Perché alla fine ha incarnato non solo un modello di innovazione meno credibile dei Cinquestelle, ma anche una presenza assolutamente ingombrante e “totale” nel corpo del Paese, ancora in qualche modo legata al centrosinistra, che dentro di sé ha quegli elementi di “lealtà” democratica-pluralistica di cui Reichlin tesseva l’ elogio già ricordato.

Renzi è l’epifenomeno di un fenomeno già largamente verificatosi: il Pd era solo antiberlusconismo vario che alla fine del berlusconismo si è totalmente dissolto, restando animato dal “futurismo” rottamatorio ed esuberante del leader toscano, il quale alla fine ha dovuto cedere alla rottamazione più sistemica e credibile dei Cinquestelle.

Spero di potere ragionarci meglio, ma mi sono fatto una convinzione: perché a Milano, o Cagliari o altrove, i Cinquestelle non esplodono? Sono fenomeni locali? Può darsi. Però a Milano la candidatura certamente renziana di Sala sta dentro un’esperienza di buon governo come quella di  Pisapia. Esperienza che nasce dalle primarie in cui i due candidati a sinistra di Sala hanno concorso, integrando così un certo popolo del centrosinistra e siglando un patto di lealtà alla fine della contesa.

Può essere che mi sbagli ma ho l’impressione che quando nel campo del centrosinistra si sviluppano meccanismi che non trasformano la coalizione in senso “proprietario”, ma ne valorizzano le articolazioni, questa coalizione in qualche modo tenga. Dove il Pd assume, come Roma e Torino, una chiara unità di leader (Renzi) con il proprio candidato, l’elettorato sfugge.

Qual è la morale? Che, se esiste un elettorato ancora vivo in un campo di centrosinistra, esso rifiuta l’identificazione leaderistica. Pertanto, per questo, credo, vincerà il no sulle riforme.

Inoltre, la collocazione “tattica” dei Cinquestelle sul no alle riforme costituzionali risulta particolarmente astuta. Questo schieramento, di per sé onnivoro, nella fedeltà costituzionale offre quella “garanzia” di sistema che lo rende rassicurante soprattutto per l’elettorato di ex centrosinistra che, come i flussi elettorali confermano, si indirizza verso il giovane movimento.

Tante ancora le riflessioni da fare, che magari si affronteranno successivamente.

Nicola Bozzo

Fotografia tratta dalla pagina Facebook di Matteo Renzi.

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