Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 29) The Moffs

Quando valutiamo un disco, subliminalmente addestrati in simile impresa da decenni di stampa musicale, siamo normalmente inclini ad anteporre –anche se non lo sappiamo- il suo valore di scambio a quello d’uso. Per valore di scambio sia qui intesa la smerciabilità del prodotto culturale sul mercato della sacrosanta chiacchiera, quella che ci consente di fare incetta di like facili sul nostro profilo facebook o andare lisci in qualche discussione tra amatori iper-storicizzati. Il valore d’uso, dall’altro lato del fiume, è banalmente il piacere che un ascolto può recarci.
In che misura il piacere viene ingenerato dall’originalità di un’opera musicale? Da cui germina l’ulteriore domanda: quanto i nostri centri recettori sono sensibili alla novità al fine di secernere ciò che volgarmente chiamiamo godimento?
Lascio in sospeso tali annosi quesiti afferenti alla sfera dei massimi sistemi e continuo a frugare nei bauli in cui il manuale del giovane recensore à la page ha prescritto di relegare quei tesori non immediatamente convertibili in copie vendute e profusione di like.
Faccio riferimento a opere la cui bellezza, per una tragica, diffusa sorte, non è riuscita a uscire dal cono d’ombra della fama di artisti ben più quotati, accumulando strati di ragnatele che col tempo si sono morfizzati in stoffa preziosa.

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Ricordo bene la recensione che mi portò ad acquistare questo disco. In breve diceva: molto bello sì, solo che –peccato!- esiste un gruppo di nome Pink Floyd il cui numinoso passato non può essere facilmente eluso. Probabile risultato: a parte qualche spericolato completista, chi lesse preferì tirare fuori “A Saucerful of Secrets” dagli scaffali e risparmiarsi le sedicimilalire che sarebbero occorse per portarsi a casa “Labyrinth”.
Da parte mia, nella donchisciottesca pretesa di combattere l’entropia estetica universale, presi a stipare la quasi totalità dei miei mixtape adolescenziali di “Touch the ground”, “The grazing eyes” e “Always aflame”. E a puntualizzare un’efficace strategia di reperimento di qualsiasi precedente traccia discografica di questi strampalati australiani psichedelici. È un’operazione che anche oggi, a distanza di quasi trent’anni, v’invito a compiere.
Tutto quello che i Moffs hanno prodotto ha come scala di oscillazione docimologica due soli indicatori: eccelso e ottimo. Ogni tassello del loro breve iter discografico possiede una variabile ripartizione di pezzi spettacolari e trance mesmerizzanti: su “Labyrinth” (1988), unico long playing della band, l’armonia e la compiutezza di questa mescolanza raggiunge il suo zenit.

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Avrete appena finito di estasiarvi per la lussureggiante, sotterranea perfezione architettonica di “Touch the ground” (e che farà litigare, come fu per i Floyd, psycho-addicts e progsters per chi debba incollarvi prima la propria sigla preferita) che ecco “Tapestry”, a serpeggiare per piani riarsi lungo sentieri d’incanto orientale, e poi “Surprised” che jamma tra incensi e scantinati muffosi. “The grazing eyes” serve ancora a fare innamorare, platealmente, e a suggerire quanta semplicità armonica possa occorrere alla musica rock per tirarci fuori la nostra buona dose di pelle d’oca.
Il lato B del vinile sembra seguire grossomodo il medesimo schema strutturale: si parte con il pezzo più articolato (“Desert sun”), si prosegue con il pezzo più auto-avvolto (“Always aflame”), si giunge a quello più “improvvisativo” (“Stealing cake”) e si termina con il più suggestivo (“Who’ll point you”).

Immaginatevi dunque i Moffs come un’entità creativa dannatamente trascurabile, se avete finito per convincervi che ogni reale debba essere necessariamente razionale e che la musica non sia faccenda primariamente edonica, quanto piuttosto ossessione evolutiva.
Che però il tempo sia un percorso progressivo procedente da un meno a un più, un inesausto delirio prometeico ansioso ogni istante della propria negazione nell’istante successivo resta ancora tutto da dimostrare. Anzi: da non-dimostrare. Certe cose non si comprendono, ché in quel forsennato gesto rischiate di distruggerle. O ancora peggio: di sprecarle.

Alessandro Calzavara


“In copertina: Labyrinth (front cover, The Moffs, 1988)”

2 pensieri su “Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 29) The Moffs

  1. Innanzitutto, grazie Alessandro delle segnalazioni, e grazie di poter leggere le tue cose perché davvero stimolante, per gli argomenti e per come li esprimi, comunque un gran piacere! tanto per rimanere in tema…
    Tuttavia quel che tu chiami e indichi come due cose separate, valore di scambio e di uso, io non ne sarei poi così sicuro, anzi credo siano piuttosto legate: il diffuso e passivo (in quanto storicizzato o comunque rigido) compiacimento di questo o quello, può influenzare il piacere all’ascolto (o anche il dispiacere se qualcuno ha tendenze “iconoclaste” per esempio). Ma qui si entra in un piano psicologico-sociale abbastanza delicato, intricato e soggettivo, forse meglio lasciar perdere…
    Invece le tue domande, giustamente legate, “in che misura viene il piacere viene ingenerato dall’originalità di un’opera musicale, e quanto i nostri centri recettori sono sensibili alla novità al fine di secernere ciò che volgarmente chiamiamo godimento”, non è così difficile rispondere, per farla brevissima: innanzitutto dalla nostra preparazione culturale (profonda ed estesa conoscenza della grammatica e dalla storia musicale).
    Le tue stime di valore, come quelle mie e di chiunque altro, se non prendono atto della creatività ossia dell’originalità e dei fattori squisitamente musicali di linguaggio e pure quelli atti a stimare tecnicamente le opere, valgono sostanzialmente come mi piace/non mi piace di un ascoltatore qualsiasi: non è ossessione evolutiva, è semplicemente competenza che offre l’unica scala di valori possibile per poter seriamente affermare: eccelso, ottimo, ecc.. (Ricordiamoci che siamo in sede di recensione, e il critico ha precisi e principali doveri, oltre a quelli più che secondari di segnalare i propri godimenti senza argomentarli oggettivamente.)
    Poi io domani posso pure ripromettermi di copiare in controluce “The Piper” (o la Gioconda) rendendolo un po’ differente, e tu esserne entusiasta, e chissà, per qualche motivo tutto tuo e inesplicabile oggettivamente, magari ti “piacerà” anche di più, ma rimane il fatto che se non ci fosse stato il modello originale il mio non sarebbe esistito! E ciò, di là di tutto, non mi sembra cosa trascurabile, e a tutti i livelli, non credi?!
    P.S. Peraltro questi The Moffs non li trovo così simili ai PF, comunque che aumento entropico…

  2. Molto grato per questa segnalazione( li ho sentiti adesso su youtube). Sono stato sempre molto attento alla scena rock degli anni ’80, ma confesso che questi (colpevolmente) proprio non li conoscevo. Veramente un grande gruppo neopsichedelico. Vedrò di procurarmeli…

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