di Alfredo Nicotra La cornice è l’unico elemento pregnante e antiretorico dove è andato in scena in queste sere a Catania lo spettacolo “No mafia, no party”. Un monologo satirico tratto dal libro “Frammenti di un discorso antimafioso” di Gianpiero Caldarella (Navarra editore, 2015).
Il marciapiede sgarrupato dell’associazione “Gammazita”, un avamposto libero nel quartiere popolare di San Cristoforo, che si affaccia su una piazzetta divenuta per l’occasione un teatro, tra i fumi degli arrusti e mangia e il vocio degli avventori che si addentrano nelle carnazzerie per mangiare la carne di cavallo. Un tempo qui ci veniva Pippo Fava.
Lo spettacolo scritto da Gianpiero Caldarella (giornalista e attore), “testi, voci e minchiate”, e da Matilde Politi (musicista), “voce e fisarmonica”, vuole essere una satira chiara, coraggiosa e aperta contro le ambiguità e le connivenze dell’antimafia pubblica e istituzionale
ma risulta sin dalle prime battute un’arma ormai spuntata, un discorso trito e già sentito, un refrain. Segno che questa nuova leva dell’antimafia intellettuale e sociale che si batte a spada tratta contro la mafia dell’antimafia (siamo pur sempre in terra pirandelliana), dopo le prime schermaglie si sta esaurendo, non avendo più nulla da aggiungere ai suoi contenuti, se non anch’essa pile di libri sui tavoli delle associazioni e delle scuole che la ospitano.
Lo spettacolo comincia con una citazione coltissima del “quadrato semiotico di Greimas” applicato all’antimafia (mafioso, antimafioso, non mafioso, non antimafioso), o meglio al discorso antimafioso in quanto strumento di fascinazione e quindi auto referenziale,
per evidenziare al pubblico le sottili sfumature del rapporto dei cittadini e delle istituzioni con la mafia, e procede per due ore abbondanti tra ellissi e analogie, divagazioni e dialoghi, intermezzi musicali e filastrocche, citando aneddoti e “casi” ormai saliti alle cronache, ritagliati dai giornali e ben conosciuti al pubblico, assunti sempre con insistenza come emblematici e quindi rappresentativi della tesi che l’antimafia vive a stretto contatto con la mafia come in un connubio inscindibile. Che “con l’antimafia ci si può guadagnare”.
La spiegazione della tesi esposta dal giornalista palermitano si trova già contenuta dentro il titolo “No mafia no party” e indica il livello elaborato della qualità satirica e linguistica di Caldarella. Con esso si evidenzia la duplicità semantica della parola anglofona “Party”, intesa come festa per ingrassarsi economicamente e come partito, strumento per raccogliere a man bassa voti e consensi ma poco efficace sul territorio.
Tutto il monologo gioca tra citazioni colte e pun linguistici (giochi di parole). Dai “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes all’“Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin ( o Bengiamin, come lo pronuncia l’autore, spia della confidenza stretta e non superficiale che egli ha con questi testi).
Ma al di là dell’uso improprio del citazionismo di stampo medio borghese (cioè dei libri più orecchiati che letti realmente), lo spettacolo indugia sul gioco linguistico. Sulle analogie dei nomi, Hegel-Helg (Roberto Helg, ex presidente della Confcommercio di Palermo arrestato con l’accusa di estorsione), ad esempio, per solleticare gli spettatori, che nel frattempo, dopo un’ora, non hanno schioccato un solo applauso. L’apice del monologo di Caldarella si raggiunge però al momento del caffè, come di costume nella tradizione sicula: “caffè Pisciotta, sentito che botta; caffè Sindona, l’aroma che non perdona”. Un investimento linguistico di una certa complessità. Infatti non si capisce di cosa si ride o si dovrebbe ridere. C’è molta simpatia per l’autore-attore ma poca comicità in questo spettacolo. Le risate sono contenute e discrete, ci si guarda intorno per capire se è venuto il momento di ridere. Agli intermezzi musicali di Matilde Politi si rimpiange Rosa Balistreri.
Il livello successivo dello spettacolo è l’invettiva contro l’abuso della parola “legalità”, altisonante e utilizzata in molteplici contesti, dalle “Navi della legalità” ai suoi infiniti impieghi, tanto che l’autore si chiede come mai “l’abuso e lo stupro della parola non è considerato illegale”.
Si spara sulla croce rossa. Da Libera alle associazioni antiracket al caravanserraglio delle manifestazioni e delle celebrazioni commemorative, fino ai libri e ai gadget dell’antimafia, come le magliette che nel nostro immaginario hanno sostituito il volto di Che Guevara, dal Maxiprocesso (“l’Arco di trionfo dell’antimafia”) alla supposta Trattativa Stato-mafia.
Infine la questione irrisolta dei beni confiscati e delle aziende che finiscono sotto amministrazione giudiziaria incapaci di produrre fatturato e posti di lavoro e spesso utilizzati impropriamente che Caldarella eleva a caso rappresentativo ed emblematico dell’inefficacia dell’antimafia. Come se non si capisse che in Sicilia non esiste un regime di libero mercato ma che si è imposto un vero monopolio nel mercato, per cui una azienda confiscata può dire addio a ogni committenza nel territorio, qualunque bene essa produca, anche un caffè.
L’attore e il suo monologo non brillano per presenza scenica, la verve risulta assai blanda, come del resto l’approfondimento dei contenuti e dei temi, ormai ridotti a stilemi e a luoghi comuni da riutilizzare e montare a piacimento.
Ovviamente l’autore è un giornalista satirico, non un attore e lo spettacolo che regge a fatica per due ore risente del suo essere one man show senza un contradditorio. La tragedia greca deve pur averci insegnato qualcosa se a un certo punto è spuntato il coro.
Se vogliamo restare nella metafora e nel paradosso che tanto vanno di moda in questo momento, diremmo che se esiste la mafia dell’antimafia allora stiamo assistendo alla prima guerra d’antimafia, una guerra che l’antimafia sta conducendo all’interno di se stessa, con la volontà dai parte dei giovani intellettuali di scalzare i vecchi; se volgiamo restare all’interno del registro colto, che tanto piace all’autore, diremmo allora che i giovani giornalisti e intellettuali (precari) stanno vivendo una autentica “angoscia dell’influenza” che comprensibilmente li costringe a ritagliarsi dei posti di potere e quindi dei discorsi sul sapere all’interno del discorso antimafioso, vittime anch’essi di questa vertigine semiotica che ogni discorso produce.
Buonasera Alfredo, la tua analisi è appuntita ed efficace, mi sono divertito molto a leggerla. Su alcune cose però (non sulle opinioni, quelle attengono al diritto di critica che tu eserciti senza piaggerie, ce ne vorrebbero di più) vorrei fare delle precisazioni. Lo spettacolo non è durato due ore ma un’ora e mezza (è iniziato alle 22.20 ed è terminato che mancavano 10 minuti alla mezzanotte), quindi per una mezz’oretta avrai sentito un “abusivo”, spero meno noioso di me 🙂
Altra cosa, sono d’accordo sulla coralità che durante la serata è mancata, ne abbiamo parlato per quasi due ore tornando in macchina con Matilde, ma c’è stato anche un problema tecnico come ti sarai accorto: il secondo microfono, quello di Matilde non si sentiva granché, tanto che in certi punti dialogati ero costretto a passargli il mio e riprenderlo. In ogni caso è stato un nostro errore, un guasto di cui tenere conto, questa era la seconda replica di uno spettacolo che sta crescendo e quindi delle analisi serie come la tua possono solo far bene e di questo ti ringrazio. Infine il discorso sugli applausi, io li ho sentiti, più volte, soprattutto in quelli che erano i tempi di “pausa”, cioè prima o dopo le canzoni, così come vedevo le facce divertite che stavano nelle prime file. Poi sono un po’ miope, magari dietro erano incazzati.
Fin qua i fatti, ora andrei sulle valutazioni che riguardano la mia persona e non lo spettacolo. Fai bene a dire che sono un “giornalistico satirico e non un attore”, e proprio per questo posso dirti che parlare di “angoscia dell’influenza” e necessità di “ritagliarsi posti di potere” è quanto di più lontano sta dal mio percorso di autore. Una domanda però permettimi di fartela: cosa si contrappone “all’intellettuale precario”, quello “sistemato”? Quello “assoluto”?…l’intelletto come si può “inquadrare”? Col job-act? La satira per come la intendo, è sempre è comunque contro ogni forma di potere. Il libro da cui è tratto lo spettacolo (“Frammenti di un discorso antimafioso”) è stato consegnato all’editore i primi di luglio dello scorso anno e già lì parlavo di beni confiscati e di tante altre cose che solo dopo i casi Saguto ecc sono balzati agli onori delle cronache e la prima traccia dei frammenti è presente sul blog già il 12 marzo 2015 (https://scomunicazione.wordpress.com/…/frammenti-di-un…/ ). Le date sono importanti perché fanno la differenza tra un’operazione di sciacallaggio e un’azione di monito sui rischi legati al possibile. Rischi che si sono puntualmente resi effettivi. E se volessi andare 11 anni addietro, al 2005, argomenti simili li affrontavo anche dirigendo il mensile Pizzino.
Un’altra cosa che hai ben colto e che non posso negare è che la semiotica fa parte integrante della mia formazione, non meno della satira. Il contesto crea il testo, quel marciapiede non è importante solo perché da lì ci è passato Pippo Fava, a pochi passi da lì c’è una piazza di spaccio e soprattutto a Catania (come in ogni altra città) ci sono dei tabù. Parlare cinque minuti delle “esperienze redazionali” di Mario Ciancio in quella città è stato liberatorio per molte delle persone che mi hanno avvicinato dopo lo spettacolo. E dato che ti appassionano le citazioni, prima di salutarti vorrei chiudere con Hofmannsthal: “La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”.
Buon lavoro
Gianpiero Caldarella
Gianpiero, scusa il ritardo, ti rispondo, spero, cercando di non essere polemico. Le mie valutazioni sono state di tre tipi, estetiche, contenutistiche e morali. Cercherò di analizzarle… ho usato, come hai visto, un tono sarcastico e corrosivo, non per una questione personale, ma perché a me lo spettacolo è parso troppo parco. Insomma era per formativo nel senso che tu stavi rappresentano il peggio dell’antimafia. La questione però sta nella forma. Il tuo spettacolo è didascalico, ottimo per chi nn si informa, ma questo non deve discolparti, anzi, avresti dovuto fare un pezzo per stomaci forti come il mio e non assecondare l’approssimatismo del pubblico. Se ti dico che nel tuo spettacolo non si ride è perché non investi molto sull’economia linguistica della risata. Non ci sconvolgi, non ci scandalizzi, formalmente è un pezzo che andrebbe bene per un pubblico di minori della scuola statale. Questa la forma. Ancor peggio i contenuti, a me è parso che tu hai ritagliato dei pezzi dal giornale e li hai incollati male, in modo rizomatico, non approfondisci alcune questioni, come quella che ti ho esposto del monopolio del mercato in sicilia, che inficia ogni tesi contro l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati. un libro poi è un gadget, e anche tu sei costretto alle regole dell’editoria devi vendere ecc. Quindi questo modo di affrontare la cosa vi si rivolgerà sempre contro. Poi eticamente io ci vedo molta ingiustizia e molta saccenteria da parte di voi giovani giornalisti (ma rispetto ai vecchi leoni lo avete mai vusto un morto ammazzato?). per me vi state ritagliando uno spazio di visibilità, comprensibile si deve pur lavora in qualche modo, allora non pubblicate, non cercate palcoscenici oltre le strade, siate socratici e maieutici, non pubblicate sui giornali della confindustria. Siate puri quando condannate, e cercate di vendere meno possibile. È una critica che ho già esposto nei confronti di giacomo di girolamo e che puoi leggere qui, su Carteggi. Altrimenti io ci vedrò solo malafede. Un abbraccio
Ciao Alfredo, sei riuscito finalmente ad essere polemico, con coraggio e un pizzico di ingenuità. Coraggio perché, dopo aver assunto il ruolo di critico non temi di essere “criticato” a tua volta. Ingenuità perché cercando di spiegare tutto, (ma ce n’era bisogno? Il tuo discorso era chiaro, io semmai ti avevo risposto non sui contenuti ma solo su 2 evidenze: sulla durata dello spettacolo e gli applausi e sulle valutazioni sulla persona) ti è sfuggita di mano qualcosa. Dici “avresti dovuto fare un pezzo per stomaci forte come il mio e non assecondare l’approssimatismo del pubblico” e ancora “non approfondisci alcune questioni, come quella che ti ho esposto del monopolio del mercato in Sicilia”. Insomma, in qualche modo ho capito che non stai criticando lo spettacolo che hai visto, ma quello che avresti voluto vedere o meglio quello che vorresti andasse in scena. Per questo ti invito a farlo, prova tu a parlare direttamente col pubblico.
Dici che assecondo un pubblico approssimativo? Beh, allora si spiegano gli applausi che nella tua recensione erano inesistenti (delle due l’una, o quello che dici ora o quello che dici nell’articolo). Tra l’altro, almeno finora, (I Candelai e la Rai a Palermo e Gammazita a Catania), il pubblico non è mai stato “generico”, ma quasi sempre un pubblico sensibilizzato e informato che se fossi stato approssimativo non sarebbe neanche rimasto fino alla fine, figurati “due ore abbondanti” dove non si raccontano le cose che andrebbero raccontate, non si ride, non c’è bella musica e si fa copia e incolla dai giornali. Insomma una tragedia inconsapevole più che uno spettacolo satirico. Tra l’altro, al di là degli applausi, è andata talmente male che dopo lo spettacolo ci hanno proposto altri due appuntamenti, uno a Catania e uno sui Nebrodi. Dalle scuole di cui parli finora mi sono tenuto al largo. Semmai, a proposito di contenuti, quello che mi spiace è che non hai colto il punto centrale, cioè l’analogia tra il discorso amoroso di Roland Barthes e il discorso antimafioso di cui parlo. Sta tutta qui l’originalità (se esiste) del testo da cui è tratto lo spettacolo e non mi pare sia un trito e ritrito. Mi dirai che il diritto del critico è cogliere quello che gli interessa cogliere, tutto il resto si può tralasciare. Hai ragione, io ho sempre saputo di fare qualcosa di imperfetto, amo l’imperfezione, e scrivo da oltre vent’anni. Allo stesso tempo so che al critico non pertiene l’oggettività del discorso (e mi dispiace per chi ne è convinto) ma un punto di vista, legittimo e talvolta fuorviante. No, non in malafede, non lo direi mai se non avessi in mano elementi più che pregnanti per poterlo dire. Infine, sull’etica e su noi “giovani giornalisti”, (magari fosse così, temo che tu sia più piccolo di me che i 40 li ho passati da un pezzo), anche lì vengono fuori i tuoi inviti, ci vorresti più “socratici e maieutici”, il diritto di parola viene dai “morti ammazzati”. Sai in quante modi si può fare pressione su un giornalista o su un autore? Qualcosina lo so, visto che ho diretto ben due giornali, Pizzino e l’inserto di satira Emme per l’Unità e quelli che ci scrivevano e disegnavano potrebbero raccontarti cosa significa esporsi solo per difendere chi ha meno armi di te per farlo. Ho pagato queste scelte, anche a prezzo più caro di quello che avrei pensato allora. Per due anni ho anche curato una rubrica su Radio 24, il mio direttore era Giancarlo Santalmassi, che considero uno dei più grandi giornalisti viventi, uno che dai microfoni di Radio24 è stato allontanato anche per le posizioni assunte “in diretta” durante una lunga intervista all’ex superministro dell’economia Tremonti. Poi, fatto fuori lui, la mia esperienza lì è finita, ma per certi versi è stata più interessante che in certi giornali di “sinistra”. Certe cose bisogna viverle, non supporle. Così come c’è stato un periodo (2008) in cui nel giro di pochi mesi mi sono visto una redazione devastata, pc rubati, archivio fottuto e poi mi sono preso anche un bel po’ di pugni tanto da farmi medicare in ospedale. Movente dell’aggressione mai chiarito. Continuo a rompere i coglioni, e la cosa mi diverte ancora, figurati quanto sono “raccomandabile”. E finora per quanto riguarda i libri scritti, non ho pubblicato per grandi editori con l’intento di “vendere” e farmi i soldi. I libri, come quello su Lampedusa, per il quale ho ceduto i diritti all’associazione Askavusa, sono stati anche un’occasione per sostenere alcune realtà. Rimango saccente lo stesso, dirai tu, sennò non ti avrei risposto in questo modo. Spero di no, comunque sappi che su questo argomento non replicherò più (magari ci ritroveremo a parlare dei punguini dell’antartide) anche perché mi piacerebbe che ognuno di noi due dedicasse le energie ad altro. Un abbraccio