Non c’è spesso un criterio migliore di nessun criterio per aprirsi alla bellezza. C’è chi crede nella predestinazione, nel percorso che si traccia sotto i piedi, apparentemente sospinti da un richiamo ineffabile e scarsamente decifrabile. Beh, è un po’ troppo per me immaginare che in qualche remota stanza dell’universo superno Qualcuno o Qualcosa stia infaticabilmente progettando -per miliardi di persone moltiplicate per milioni di anni- direzioni personalizzate e ben camuffate al solo scopo di trarre divertimento dal non farle loro intendere consciamente. È pur vero che, assestatasi su alcuni sentimenti dominanti, l’indole individuale tende a essere “orientata” verso sentieri già battuti da anime affini. E che, nell’epoca della connessione totalitaria, sia ben più facile rinvenire indizi di ben organizzate koines estetiche e unirvisi. Fatto sta che a me bastò un semplice ascolto su suggerimento del mio allora pusher vinilico per innamorarmi di “Lazare”. Natale, che conosceva abbastanza bene i miei acerbi gusti, era un fan ipercinetico dei Tuxedomoon, e questo disco, italiano, era prodotto da Steven Brown, oltre ad annoverare qualche suo intervento strumentale e una chiara influenza sull’ispirazione della band.
M’innamorai di questo mini lp prima ancora di ultimare doverosamente la discografia di quei meravigliosi apolidi franciscani, e prima ancora che uscisse il loro disco che oggi mi viene più facile mettere in relazione con questo, ovvero “You” (del 1987, anno successivo). E poi la mia vita di tredicenne non faticò a srotolarsi e acchiappare polvere su questo pregiato, quanto oggi misconosciuto, breve capolavoro. C’è molto spleen tra questi solchi, come ve n’era sulle fibre dei miei vestiti. C’è una sensualità languida e accidiosa, eppure raffinata; e c’è un lutulento ribollire di decadente sperpero malinconico. Sesso adolescenziale circondato da un alone di morte e abbandono, i primi (doverosi) disastri sentimentali, e –più o meno- come doveva sembrare nel 1986 la nuova frontiera del dandismo. Questa musica si attaglia su arredi monocromi e ben illuminati, su ampie finestre a scorrimento su arterie principali, mentre le luci di un equalizzatore domestico salgono e scendono a ritmo dell’estinzione. Una via borghese alla psichedelia depressiva. I synth sono misurati e cupi, i fiati ritagliano linee melodiche semplici sospese tra la mestizia e l’esotismo jazz, le drum machine sono atmosferiche e discrete, il basso è soffice e sensuale. Non ci sono sbavature, tutto suona liscio, quasi robotico, ma in trasparenza pulsa una lacerazione crepuscolare, un’irrequietezza insonne e caliginosa che rimesta nel doppio fondo dell’ascolto. “Hybrid (of a tight laugh)” s’annuncia con una nube iperpigmentata che rotola sopra la città, e subito lo zoom infrange il vetro d’una finestra illuminata, dietro cui una donna wendersiana osserva, amara e desolata, le ultime luci della città prima della notte. Le tastiere sono delle macchine per il fumo, chitarra e clarinetto costruiscono una suggestione emotiva che lentamente viene smembrata da rumori incombenti e un sax isterico, e il loop della sopravvivenza, nonostante tutti gli avvisi, prosegue apaticamente.
Le cinque tracce del disco sono parecchio diverse l’una dall’altra, le velocità difformi, ma il gusto (parecchio tuxedomooniano, come s’è detto) non latita mai; piuttosto questa eterogenea omogeneità serve a rendere l’ascolto (anche data la breve durata) assolutamente fluido e appassionante. “Psiche”, che chiude il lavoro, gira attorno a un pianoforte che sembra pestato da Wim Mertens, o per certi versi dal Keith Emerson di “Inferno”, che avanza nottetempo tra vicoli spogli e ventosi, attrae a sé scampoli di senso melodico e li accumula in piccoli montarozzi sul ciglio del marciapiede, grumi di clarino e cori nebbiosi, prima che la voce elevi il suo mantra wave e si spenga nell’assordante nulla circostante.
Alessandro Calzavara
“In copertina: Lazare (front cover, Minox, 1986)”