La zona rossa – Francesco Filia

Poemetto apparentemente politico, “La zona rossa” (Il Laboratorio/Le edizioni, 2015), ultimo lavoro di Francesco Filia – che conclude una trilogia iniziata con “Il margine di una città” (Il Laboratorio/le edizioni, 2008), e proseguita con “La neve” (Fara, 2012) – si incentra sulla manifestazione partenopea contro il Global Forum del 17 marzo 2001, caratterizzata da violenti scontri, prodromo dei successivi, tragici, eventi genovesi. La narrazione, sostanzialmente fedele ai criteri aristotelici di unità di tempo-luogo-azione, salvi taluni flash-back e un epilogo dei protagonisti, svela però quasi immediatamente la sua riuscita ambizione di “romanzo di formazione”, con un puntuale esergo tratto da “L’educazione sentimentale” di Flaubert (“Non abbiamo mai avuto niente di meglio, dopo” disse Federico. “Già, forse hai proprio ragione: non abbiamo avuto di meglio” disse Deslauriers.). La stessa stampa, che alterna fogli bianchi e rossi, si arricchisce delle acqueforti e acquetinte di Pasquale Coppola, con un accenno, lieve e prezioso insieme, ad altri, più invasivi, “libretti rossi” di storica memoria.

Le vicende dei quattro amici, tre uomini e una donna, tutti alla soglia dei trent’anni, che in diversa veste e con vario ruolo partecipano al corteo, pur puntualmente inserite nella fabula della giornata -scandita dalle sezioni Corteo, Alba, Giorno, Tramonto – in realtà non focalizzano le concrete ragioni politiche della protesta, delineando piuttosto una parabola generazionale fondata sulla manifestazione quale rito di passaggio (una pantomima di vita la protesta/ …da ripetere tra una risata e una finta/indignazione ;….Ecco amici sto arrivando/a questo rito stanco al congedo/da quel che fu il nostro incanto.), una iniziazione che sin dall’inizio si tinge da epica di sconfitta preannunciata e che conduce, consapevolmente, solo a una mera sopravvivenza cui si è storicamente ridotto lo stato di “adulto” nella società contemporanea (tic e sguardi che pretendono una resa./ Com’è chiaro che nessuno di noi sopravvivrà.; …poi sarò vita che sopravvive a se stessa.).

Sul vuoto di un fondale napoletano plumbeo ed alieno – già oggetto dei precedenti bei libri di Filia – si cumulano i millenni, …gira una macina che trita i suoi grani/secondo dopo secondo, eone dopo eone, deprivando di senso ogni possibilità di futuro e di lotta medesima. Quest’ultima nel testo centrale del libro – (dal titolo sciasciano, Il contesto) – risulta epigona del fallimento dei padri, laddove ai figli ora in corteo resta un nichilismo con coloriture foucaltiane (Non c’è un ordine contro cui/ lottare ma un’anarchia del potere /che ci fa fare ciò che vogliamo, /non desiderarlo), un ulteriore vuoto, specchio omologo, che comprime tutti, nel ciclo Denaro merce più denaro, a una sorta di forma rinsecchita, lasciando come via di uscita soltanto la gloria di una resa. La “zona rossa” che delimita i luoghi istituzionali dei lavori del Forum, interdetta e difesa dai celerini (…a guardia di un ordine, /che voi intravedete dietro le mie spalle, /di cui non so nulla…) assurge a simbolo di uno sbiadito Palazzo d’Inverno e gli stessi scontri con l’arresto di due dei protagonisti finiranno con il cedimento e la delazione di uno dei due che crolla nel corso di un interrogatorio tratteggiato dalle formiche lungo i battiscopa, …la via di fuga/tra una mattonella e l’altra…

Il timbro da epos secco e “scabro” della versificazione, giustamente rilevato nell’accurata prefazione di Aldo Masullo, vede predominante l’uso tensivo dell’ endecasillabo nei vari episodi che si susseguono incalzanti; gli stessi innesti lirici, più evidenti nei flash-back di un’infanzia e di una adolescenza venate già da un crepuscolare disagio esistenziale, confermano la tendenza metafisica della poesia di Filia, che riesce qui a coniugare brillantemente la concretezza degli eventi con una più ampia riflessione sull’esser-ci, ricorrendo anche a topoi classici, quali il calco quasi pompeiano dei due amanti nel sottopassaggio (cfr infra) o l’attesa sofferta alla Penelope di notizie da parte dell’unica donna della comitiva, Elena, che ha scelto il lavoro di giornalista a salvare dall’oblio di ogni insignificanza ..la realtà che vedo, il fatto. E’ in questa capacità di indagine a più livelli che il libro diviene profondamente politico, al di là della contingenza, con una sintesi dolente dell’epoca che ci è toccata in sorte, narrando nel coro finale, collocato a circa 15 anni dal corteo, del filo di luce che lo attraversava e del silenzio attuale della resa.
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testi
Assembramento Piazza Garibaldi

La folla si avvolge in spire attorno
allo spray della statua dell’equestre
eroe che veglia su facce assonnate
o feroci nel grigio di un giorno
ancora inesploso, il vocìo indistinto
a tratti in cori si organizza
in slogan di desiderio e minaccia
di un assalto a un cielo ormai remoto
mentre una terra modifica se stessa
in un implodere d’asfalto e crepe
nei marciapiedi. Sono lì Andrea Ciro
che già parlano non so di quale massimo
sistema ed io mi avvicino esitante.
Provengo da non so quale
galassia remota dello spirito chiuso
tra un manuale da affrontare e un codice
di vita da decifrare, ma adesso in maschera
da combattimento vivrò un ultimo giorno
poi sarò vita che sopravvive a se stessa.
Corso Umberto I (Rettifilo)

Ci osservano dai vicoli ai margini del corso
dietro le vie di fuga bloccate da camionette
e cordoni della celere. I ragazzi dei vicoli
scendono al bordo del nostro sciamare
verso un punto inaccessibile, oltre
l’assetto consecutivo dei palazzi il cupo
aspetto umbertino, lungo la teoria
di serrande abbassate e occhi alieni
da uno spazio remoto. Ecco lo sguardo
fisso d’incomprensione disprezzo, lo scherno
che li attraversa marca la distanza trafigge
i nostri occhi abbassati e in fondo sappiamo
che questa città non sarà mai nostra,
le strade ci saranno estranee per sempre,
assedio di motorini e urla gettate
contro i nostri visi e allora
non resta che marciare verso quel
luogo oscuro che non sarà mai nostro.

(Via Cavalleggeri d’Aosta – Andrea ed Elena, 1997)

Ci troveranno abbracciati in questo
sottopasso allagato in una periferia
di particolato, fazzolettini
e lattice, acque
e carcasse, senza poterci
distinguere tra il cruscotto
e i sediolini posteriori, ognuno
con la mano sul sesso dell’altro,
tra alito e gemiti impressi sui finestrini
e i tuoi capelli che galleggiano
sciolti nell’abitacolo.
Forse per allora i tuoi seni saranno
scomparsi amore mio e il mio sguardo
sarà quello attonito e senza pace
di un morto ma non certo
quello che ci ha resi vivi,
i nostri cenni d’intesa l’ultimo
spasmo impresso in un gesto
la gioia feroce
di un amore appena abbozzato.
Il contesto

I
“Né eroina né polizia.” Contro
cosa protestiamo contro chi
urliamo il nostro disprezzo
di generazione in generazione?
Il fallimento dei padri – le loro
nevrosi cadute su di noi
come una colpa – che hanno
perso e barato che hanno spergiurato
e credono di essere esempio.
Non c’è un ordine contro cui
lottare ma un’anarchia del potere
che ci fa fare ciò che vogliamo,
non desiderarlo. Memorie
di una nazione morta
diciamo tra noi ridendo
giocando un gioco di ruoli: l’artista,
il nichilista, l’impegnato, la giornalista
ma ognuno è di meno di più di una
forma rinsecchita. È la gloria di una resa.
II

Ardi divina tenaglia sul mondo!
Denaro merce più denaro. In quale
fase di questo ciclo ci colloca
il sistema che fa muovere
ogni singolo passo? Fine e mezzo
interscambiabili, la mano invisibile
che comanda un acquisto e un amore
indifferentemente. E se anche questo
fosse un rimedio? Alcuni ci vogliono al gelo
alla crudeltà della lotta per la vita
e credono così di aver colto
il nocciolo dell’esistenza, denaro
più denaro. Un vento travolge ogni
cosa per voler solo se stesso.
C’è una macina che trita i suoi grani
secondo dopo secondo, eone dopo eone
e noi torniamo sempre di nuovo
su quest’identici passi a correre
a urlare a cercare di aprire
il cerchio imperfetto di queste vite.

 

Piazza Plebiscito – Primo Gennaio 2015

Non abbiamo avuto nulla di meglio dopo
è vero, ognuno di noi assiderato
in questo crepaccio di piazze e tempo
in un mutismo attonito, occhi
sbarrati che scrutano dal nulla.
Un rimorso, il soffio di un’altra vita
sfuggente, sfumata. L’artiglio dei giorni
che implodono uno sull’altro. Sembra vero
il brulichio di corpi nelle strade,
cataste senza nome di desideri e grida,
anche le nostre ombre, tra le infinite altre
scivolarono su questi ciottoli di pietra lavica.
Non rimarrà traccia del filo di luce
amore bellezza furore – non so
ancora come chiamarlo – che ci ha legati
l’uno negli occhi degli altri per un attimo,
per quella gioia mozzafiato. Ognuno
tradito, da se stesso e dagli altri. Ora
con devozione e calma non resta
che allargare i labbri della ferita
che ci tiene in vita, non resta
che inoltrarsi, silenti, nella resa.

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