“Ruth & Alex”: la rubrica cinema a cura di Francesco Torre

Regia di Richard Loncraine. Con Morgan Freeman (Alex), Diane Keaton (Ruth).

Usa 2015, 92’.

Distribuzione: Videa – CDE.

Un mondo in cui un semplice appartamento vale infinitamente di più di tutto il lavoro di una vita. É così che è diventata oggi New York (e, per esteso, la civiltà occidentale) per Ruth e Alex, una coppia multietnica, idealista e ultrademocratica che ha cavalcato indomitamente 40 anni di matrimonio senza venire corrotta dai mutamenti tecnologici, sociologici, antropologici del XXI secolo.

La loro esistenza è racchiusa in pochi convenzionali flashback: l’amore ai tempi della contestazione, la difficoltà di vivere una normale dimensione di coppia in un contesto ancora fortemente condizionato da pregiudizi razziali, il dolore per l’impossibilità di avere dei figli, l’allegria portata in casa dall’arrivo di un cagnolino. La casa è una torre eburnea edificata per proteggere il meritato spazio di sicurezza borghese dalle brutture del mondo, e consente di osservare con distacco, seduti comodi sul divano davanti alla tv, anche le concitate fasi dell’inseguimento di un presunto terrorista arabo che semina paura e panico in strade che distano sole poche centinaia di metri da loro.

Con il passare degli anni, però, quella che era nata come una barriera mentale tra il dentro e il fuori, tra il noi e loro, si è trasformata in una barriera fisica. Senza ascensore, salire e scendere le scale più volte al giorno è una fatica che Alex non sa quanto potrà ancora permettersi. Non solo: il rinnovato interesse del mercato immobiliare nei confronti del quartiere di Brooklyn ha reso quell’appartamento un investimento da un milione di dollari, e i due sembrano allettati dall’idea di realizzare un profitto dall’operazione e trasferirsi magari a Manhattan, cedendo ad una sottaciuta ambizione di avanzamento nella scala sociale.

Quando mettono in vendita la casa, Ruth e Alex vengono però assaliti da tutto quel mondo che avevano provato a tenere lontano da sé, e l’appartamento diventa il simbolico luogo di incontro/scontro tra ideali, valori, stili di vita e comportamenti. Qui la sceneggiatura di Charlie Peters, tratta da un romanzo di Jill Ciment, sceglie la strada più semplice, quella degli stereotipi (la coppia di nativi digitali dai ritmi frenetici, sensibile solo al richiamo del denaro; due lesbiche col cane, una fredda e cinica in t-shirt monocolore, l’altra ultra-emotiva e logorroica con camicia a fiori; la psicoterapeuta egocentrica con predisposizione al comando) e delle stramberie (la donna che, per capire se la casa fa al caso suo, ha bisogno di provare il letto matrimoniale facendoci un riposino), tutto comunque perfettamente in linea con l’atmosfera da commedia bonaria anni ’80 che – tra voce fuori campo di Alex, flashback, sorrisi compiaciuti e sguardi teneri di cane – la regia di Richard Loncraine mette in mostra con anacronistica coerenza.

Il richiamo alla difesa dell’integrità morale in una società in piena crisi di identità si fa ancora più evidente nella seconda parte del film, quando si invertono i ruoli e sono Ruth e Alex a dover acquistare un nuovo appartamento. Come Dorothy nel regno di Oz, avanzano con difficoltà tra tanti ostacoli in un ambiente apparentemente ostile: persone scortesi, case inadeguate, ascensori rotti, agenti immobiliari squali, proprietari di case arrivisti e razzisti.

La fuga dal mondo ordinario è stata evidentemente un errore. Meglio rinunciare alla vendita e richiudersi nuovamente nella torre eburnea. Meglio non sporcarsi le mani col mondo, che tanto è impossibile da cambiare. Anche negli States la “meglio gioventù” di una volta ha evidentemente scelto un totale ripiegamento nella dimensione privata. Inconsapevole che la melodia romantica che accompagna nel finale le riprese aeree della Grande Mela, più che un nostalgico anelito di libertà, sembra il sordo concerto dell’orchestrina del Titanic che continua imperterrita ad eseguire il proprio repertorio anche mentre la nave affonda.

La citazione: «Nessuna casa avrà la vista della nostra ma forse io e Ruth abbiamo già avuto tutte le viste della nostra vita».

Francesco Torre

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