Il realismo è l'impossibile di Walter Siti

Ripropongo una recensione già pubblicata a suo tempo sul blog internodue.
il-realismo-e-l-impossibile-d254Nel bel mezzo del dibattito sul «nuovo realismo» (quello nato a partire dal crollo delle Torri Gemelle, che avrebbe ricondotto la cultura tutta, compresa la letteratura, ad una nuova resa dei conti con la realtà, simile a quella verificatasi dopo le due guerre, a inizio Novecento), Walter Siti, vincitore del Premio Strega 2013 con Resistere non serve a niente, se ne esce con un agile e scorrevole libello: Il realismo è l’impossibile (Nottetempo).
 La prima cosa da fare è interrogarsi sul concetto di realtà: non ci ha spiegato la fisica quantistica che le cose sono e non sono, che il soggetto modifica l’oggetto, che veritiera è solo la relazione fra spettatore e oggetto del vedere? Non esiste una realtà unica, ma sicuramente esiste nei nostri cuori una promessa, una fiducia infantile che ci porta a credere ingenuamente che le cose andranno avanti senza intoppi né strappi: che il mondo sarà buono con noi, che non interferirà con la nostra natura. Ecco, secondo Siti il realismo sarebbe lo schiaffo, il contatto nudo e crudo con la consistenza dura delle cose, che non ci si con-formano, anzi, tendono a rompere e modificare la nostra struttura (psichica e fisica). «Il realismo, per come la vedo io, è l’anti-abitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale», scrive Siti. Se fino alla liberalizzazione dei costumi avvenuta soprattutto nel Novecento, il realismo consisteva soprattutto nella rottura delle convenzioni, nella trasgressione, ora anche questa, sottolinea acutamente Siti, è diventata maniera. Tutto si fa cancrena, se si fissa, l’uomo tende a rapportarsi alle cose ricorrendo a cliché, schemi che inibiscono la forza visiva. La letteratura, che è una riproduzione della realtà, che ripete all’infinito e in forme e modi diversi (quando è seria, riuscita) il dolore del distacco, il trauma dell’abbandono e l’incontro con la sferza del mondo, è probabilmente un luogo dove il tema del rapporto fra «io» e «non-io» viene alla luce prepotentemente. Quindi, dice Siti, lo scrittore non deve accontentarsi di fotocopiare meccanicamente le cose, ma deve provocarle, rintuzzarle, in modo che esse rivelino il terribile e il sacro che le sorregge. Deve essere un fotografo che svela l’invisibile. Citiamo: «C’è un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare un senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco – o, se si vuole, a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla». Lo scrittore non accetta l’insensatezza delle cose, pesca nel divenire per scovare l’Essere: qui la differenza fra «realtà» e «Realtà», di cui parla Siti, che a un certo punto rischia tutto e definisce l’attitudine degli scrittori che cercano la verità, perché odiano la realtà, «realismo gnostico». Ma perché è dannatamente importante che un romanzo sia convincente? Perché, come dice l’autore, bisogna lavorare sui dettagli, per irretire il lettore nel meccanismo magico? Ma perché la letteratura è magia, è un gioco che ripete il trauma, all’infinito, sperando di sfibrarne la forza, a furia di. Ma, ricordiamocelo bene, il realismo è impossibile: la realtà è eternamente cangiante, mutevole, il bene e il male sono intrecciati da un nodo indissolubile: l’incanto e il disincanto sono falsi. E la realtà fa paura. Capita anche agli scrittori di fare un passo indietro, di non «sporgersi» (così termina il libello): in questo l’autore è estremamente onesto, perché non se ne chiama fuori. Siti è un uomo lucido, un uomo coraggioso.

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