Se vuoi conoscere la storia di un abisso
accomodati
La sequenza dei numeri disposta sui due lati opposti – pari a destra, dispari a sinistra, presupponendo un verso di attraversamento che si inverte, ovviamente, se si procede al contrario – si mescolava all’odore della moquette che aveva il compito di assorbire i passi degli ospiti celandone le rispettive esistenze e i loro movimenti in entrata e uscita dalle porte numerate di un alberghetto a tre stelle, tra l’incrocio del vialone che conduce alla Chiesa Maggiore e il largo di Piazza Stazione. Il senso ovattato delle possibilità nascosto dentro il silenzio delle quattro mura, esercita su me un fascino peccaminoso e promiscuo nella fantasia degli ignoti possibili incontri. I luoghi di passaggio sono un guazzabuglio emotivo, carico di vita, di pulsioni. Nel percorrerlo con in mano il portachiavi d’ottone a forma di campanella piena, silenziosa, che al posto del vuoto e del battente ha un numero inciso che decreta che dormirò a sinistra, nella stanza cinquantasette, penso all’ammasso di vite in movimento, in continuo passaggio che abitano temporaneamente quel crocevia di corse e pelli e dita e mani che aprono maniglie, ripongono i soprabiti negli armadi freddi con tre grucce appendiabiti quale unica terna di possibile scelta per non spiegazzare i vestiti migliori ammassati nella valigia. Attraverso il corridoio annusando come un segugio tracce di quelle esistenze, scie di odori vivi di carne, di donne, di uomini prevalentemente. Ogni tanto percepisco una presenza strana, uno scricchiolio tra le ossa delle pareti, adesso una ragnatela che controluce nelle prime ore del mattino, mi mostra un ospite inatteso, sospeso nell’angolo del cuarto appena di fronte agli scuri semichiusi, da cui filtra la prima strana luce del giorno che dovrò affrontare.
La notte l’ho trascorsa tra le pelli, gli odori e i capelli delle donne e degli uomini che nei loro letti hanno confuso la loro presenza alla mia in un’orgia di pensieri, di sessi, di connessioni e improbabili incontri, intessendo una rete di maschere in cui mi sono perso scambiando i ruoli, perdendo la coscienza esatta del mio perché, della ragione della mia presenza in quel crocevia, senza sapere più chi realmente sono e dove sia diretto in questo risveglio di passaggio.
A svegliarmi ci ha pensato il mio nuovo taccuino tecnologico, uno di quegli aggeggi complicati che tutti si affannano a comprare e definire indispensabili. Me lo regalò poco tempo fa un tale per sdebitarsi di un favore. Mi sono imposto di usarlo organizzando una sorta di sveglia che mi ricordi gli appuntamenti, prendendo nota dei percorsi e dei viaggi da fare per non smarrirmi nuovamente dentro altri corpi e altri tuguri della mente. Trovavo decisamente meno invasivo il caro vecchio moleskine in pelle ed elastico laterale, il pennino da taschino e il mio metodico consultare senza beep e suoni metallici la lista delle cose da fare, da dire, i volti da indossare, le cravatte da abbinare al caso degli incontri prefissati.
Lo schermo freddo e cristallino con sfondo prestabilito dalla casa produttrice del congegno che consulto seduto con le gambe stese sul letto e il pigiama rannicchiato su per le ginocchia, cozza con l’odore antico del corridoio e delle stanze, che fino a un decennio fa hanno accolto orde di fumatori impenitenti di cui vi sono visibili tracce nei buchi neri sul pavimento tutt’intorno al cesso. Lo scontro di due mondi così diversi, di due generazioni così veloci nel loro distacco mi crea sempre un senso di vertigine, di confusione. La spinta di aderire al passato è sempre più prepotente, sono un essere sicuramente antico, antico nel corpo, nei gesti, nei gusti, nel pensiero e verrò meno al divieto di fumo seduto sul cesso, tutto antico come sono.
Mi adatto, questa forse è la mia risorsa peculiare: un grande spirito di adattamento distaccato e apatico alle cose, che mi salva l’esistenza.
Lo schermo con il suo beep mi ha appena confessato chi sarò oggi e la ragione di questa stanza d’albergo che ho diviso inconsapevolmente con un ragno ospite, che di sicuro di questa stanza conosce ogni segreto passaggio da molto molto più tempo di me, come un essere altrettanto antico e silenzioso nel suo spiare la vita di sbieco.
Sullo schermo lampeggia in corsivo neretto intermittente:
appuntamento per ricovero ore sette
a digiuno,
Ospedale civico, reparto oncologico, terzo padiglione a est dell’accettazione.
Ora so chi ero ieri all’arrivo e chi dovrò essere tra poco più di un’ora.
L’orario del taccuino elettronico segna le cinque e quarantacinque, mentre l’elenco non scritto delle cose da fare, ma presumibile per logica deduzione, prevede un auspicabile svuotamento intestinale dalle scorie dei pasti del giorno precedente, la prima e penultima sigaretta prima della forzosa quarantena, una lunga doccia che mi prepari all’odore asettico dei disinfettanti iodati, la vestizione per il tragitto e la chiusura definitiva dei bagagli, avendo cura di lasciare il pigiama e le pantofole a portata di mano per la nuova imminente svestizione.
Richiudo il taccuino elettronico poggiandolo sul letto e svogliatamente infilo le pantofole. Un pensiero torna ai rumori della notte e alle fantasie cui preferirei ancorarmi anziché reagire affrontando la realtà di dover andare al cesso senza un caffè caldo per colazione.
Alle sei e trentacinque sono già in strada, decido di non prendere un taxi e imbocco il vialone che conduce alla Chiesa Maggiore per poi voltare alla seconda traversa sulla mia sinistra e camminare per altri sei o sette minuti al massimo, prima di trovarmi di fronte alla croce rossa cui segue la scritta Ospedale Civico, accanto alla quale è affissa una bacheca impermeabile che smista frecce ed indicazioni dall’accettazione ai padiglioni di arrivo, e si spera di ritorno.
Imbocco l’entrata, pensando che domani forse potrò fare un pasto disgustoso e bere almeno un caffè annacquato. Spengo l’ultima sigaretta schiacciandola con la suola del mocassino scuro: è il mio turno.