I giorni perfetti

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A Luisa Tesin Amante
per quel nostro ciarlare di stasera
e quell’uscirere da noi per vederci meglio
e ridere delle certezze di un tempo

“Dove vanno a finire i personaggi
di un film ancora da girare?
Qualunque pellicola immagini,
l’umano è sempre in agguato
con le sue gabbie da raccontare.”

Davide sapeva che non poteva tornare, la scena era ormai cambiata, il regista gli stava riscrivendo ruolo e partitura. La sua canzone tra memoria e compiacenza avrebbe dovuto occultare la scena precedente in una pozza di sangue, ma il sangue di Elvira aveva una dolcezza particolare, che s’intonava all’incarnato bianco, facendo risaltare la passione in un balbettio di reminiscenze.
Elvira aveva portato a termine i compiti, chiarito la sequenza delle scadenze. In poche parole la madre era soddisfatta, era riuscita nel suo borghese intento di incastrare la figlia nel ruolo anonimo del suo salotto: un personaggio scomodo come Davide non avrebbe più dovuto varcare la soglia delle fantasie della sua prediletta complice di ruoli e reclusione: “Davide doveva evaporare”.
Ma la staccionata oltre cui saltare per correre fuori dal bosco fin dentro i chiari profondi della luce che filtra i rami, era un lavoro sottile che solo il libro di una matta filosofa spagnola poteva indicare. Fu così che Elvira sopravvisse nella sua pozza di sangue, dentro quella scena occulta e tragica, che all’ora dell’alba spezzò gli equilibri fragili della mente malata della madre. Non avvenne così il suicidio, non avvenne neppure l’omicidio, non realmente s’intende.
Il regista non aveva ancora deciso cosa fare dei corpi evaporati dei suoi sconfitti, né tantomeno sapeva come e dove lasciare languire le passioni sporcate dagli ingranaggi sociali di una città ventosa e perbenista al chiuso dei suoi salotti polverosi, che dopo generazioni di incontri e riunioni decisive e stabilizzanti, erano crollati nel silenzio dell’incapacità indomita di una generazione sbandata, persa dietro gli ideali instillati dalle canzoni dei giorni perfetti dei suoi genitori, che dopo le finte rivolte di “sesso, pace e amore”, si erano accordate alla pratica più comoda dei facili compromessi, non riconoscendo più gli occhi dei personaggi che avevano generato, né i loro stessi volti allo specchio nel crollo precipitoso della muscolatura facciale, che ne deformava i contorni, offuscando la profondità dello sguardo nell’amorfa volontà di affrontare il giorno purché si arrivasse a sera per chiudere le imposte dietro la cortina di una perfetta ignoranza del reale.
L’attaccamento al passato delle generazioni che invecchiano rivela la tenerezza di un bambino che si oppone al diniego. – appuntò il caporedattore da qualche parte.
Elvira si spostava i capelli dalla fronte con una delicatezza assorta: Davide era la parte indomita del suo sentire e qualunque altro ruolo le avessero assegnato, in qualche modo lui sarebbe tornato a mentirle. Il giorno in cui la frigida, ordinata ed elegante madre si fuse con la tappezzeria floreale del divano liberty del salone, lei corse in spiaggia a respirare la notte.
Il caporedattore, chiuso nel suo studio, continuava a riscrivere lo stesso editoriale. La scomparsa di quel giovane che aveva visto nascere e crescere nei desideri che aveva perso il giorno del suo primo sì all’altare, era l’unica storia di cronaca che sapesse raccontare: un caso aperto di cui aveva seguito minuto per minuto l’epilogo.
– Si muore lentamente, compromesso dopo compromesso, aveva appena appuntato sul suo taccuino nero, quando squillò il telefono e dovette precipitarsi sul lungomare.
Elvira si era lasciata scivolare dentro l’abbraccio nero della notte illuminata dalle lampare. La scenografia regalava l’immagine di tenerezza di un piccolo presepio sull’acqua: la celebrazione della rinascita nella sua uscita di scena.
Ritrovarono un libro e un paio di scarpette bianche sulla riva. Davide li strinse fra le mani come un rimpianto che non avrebbe avuto fine. Tornato a casa – non appena il regista gli immaginò una casa – fissò lo sguardo sul titolo di quello strano libro abbandonato sulla riva del mare: “I chiari del bosco”, María Zambrano. Posandolo sulla scrivania si rese conto di quanto somigliasse al vecchio caporedattore. Aveva assunto i suoi stessi tic, lo stesso vizio di sfregarsi l’indice e il medio contro il pollice velocemente non appena intuiva un pensiero o un’associazione, un’ossessione da fissare su carta, come in preda a una crisi di astinenza.
Andò verso la vetrina dei liquori, i bicchierini del servizio della madre di Elvira erano ancora lì. Si ricordò della coppia che li aveva spediti in occasione delle nozze. Si ricordò improvvisamente di quel barbaro costume di esporre i regali per il ricevimento di ringraziamento, la vecchia suocera sessantenne profumata di naftalina, l’addobbo di fiori come in una camera ardente. Si chiese chi fosse e perché Elvira gli somigliasse così tanto. Non volle trovare risposte, bevve il suo brandy fino a stordirsi in terra come un serpente che si avvolge su se stesso.

– La famiglia è l’inganno sociale più duro e crudele che l’uomo si sia costruito a consolazione e riparo: un intrigo di esistenze che convive in un’unica direzione opposta e contraria alle forze di cui dispone. La violenza più cruda da amare e odiare con le viscere del dolore. Il teatro crudele del nascere e morire.

Se solo avesse scritto trentacinque anni prima quelle parole, il regista forse avrebbe cambiato movente, avrebbe ripensato alla sua stessa fine e, forse, di Elvira non avremmo da piangere nemmeno il nome.
L’ultimo atto si spense nel sospiro di un grido serrato dentro il petto. Ricongiungersi al nulla nel silenzio delle ossa fu il più delicato atto d’amore che quel padre le seppe confessare.

natàlia castaldi

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