Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 47) Five or Six

Nessun’epoca della vita possiede la potenza immaginativa dell’infanzia. Ciò che prende forma nell’informe è il sostrato molle che l’incombente trapestio dell’esperienza da ogni lato aggredisce ed espande. L’organismo, scagliato nelle vastità delle percezioni e da esse contemporaneamente blandito e minacciato, distende per la prima volta i tentacoli delle sue multiple potenzialità. Le reazioni sono sature, incredibilmente contrastate.
Vi sono due modi in cui mi è facile ipotizzare la “direzione della desiderabile”, nella vita umana. Il primo, il più comune, è il training alla saggezza: da uno zero assoluto ch’è assenza di tutto (prima della nascita) passiamo a fasi di formazione che forniscono progressivamente gli strumenti per destreggiarsi nella captazione dell’impalpabile bellezza che tutto sorregge. Tale procedimento è immerso in un’acqua miracolosa, in un umore sfuggente denso di approssimazioni prensili. Con un adeguato apporto ormonale ecco già spuntare le fate e i fantasmi. L’imperfezione dello strumento (la mente) si sublima in ciò che sempre sfugge, ch’è sempre di là da venire ma indisponibile alla resa definitiva della cognizione, equivalente gnoseologico d’una donna profumiera. La magia risiede nello scarto, nell’incoincidenza, nelle inflorescenze del desiderio portato allo stremo.
Il secondo modo parte da un assunto di segno opposto: non essere mai nati è lo stadio ultimo a cui ogni desiderio potrebbe mai aspirare, stadio a cui la morte infallibilmente ricondurrà al termine d’un processo – rognosissimo ma necessario – che gli uomini chiamano saggezza. In quest’ottica, la magia è sottrazione, dis-velamento, ripugnanza alla connessione. Fasi come il sogno, o ancor meglio, il sonno vuoto, riaccarezzano quella non-condizione edenica, mantenendo il sottile legame con l’energia de-intellettualizzata dell’universo.
Cos’altro potrebbe essere la cultura se non l’asfissiante corvée d’un organismo costretto a provvedere a pressanti incombenze logistiche solo per mantenere il contatto quell’infinita pienezza rateizzata del sonno, a cui qualche incauto genitore l’ha sottratto?

Five or Six band

L’incoincidenza dell’essere (percepito) con l’omeostasi ultima (che Michaelstaedter chiamava “persuasione”) non si lascia addomesticare. Vitanaturaldurante scalcia nel ventre dell’esistenza, reclamando appagamento e rifiutando ogni palliativo. Inquieta, agita da forze che la trascendono e mai la soddisfano di sé a partire dal bisogno di alimentarsi, essa è protesa verso un progressivo oblio del proprio scopo, sostituito dalle inutili e sovrabbondanti incombenze che la vita organizzata (totalitario mostro superfetato) quasi militarmente reclama. Per tutto il resto c’è la religione, che raccoglie gli sprazzi di quell’ambizione rimossa al nulla, e li incanala verso cerimoniali ridicolmente preformattati. Lì l’elemento più capriccioso della tensione tanatologica viene spogliato della sua declinazione più accidentale e irregimentato in infiniti salamelecchi servili.
Non la tua parola, né il talento che ti deriva dall’incontro tra particolari geni e particolare esperienza: ripeti a memoria il salmo, appropriati di peccati che possiedi di default, e onora coloro che te li rivelano. Non bastasse dunque la cronica risorgenza del bisogno, vi si aggiunge il costume di maledirlo ed emendarlo formalmente (ché nella sostanza il brulichio è astutamente incoercibile).
A difesa del sacro cazzeggio ontologico, del succitato appagamento dissipativo, interviene l’arte, il tempo che veste i colori del proprio inconsistente fluire. È dall’elemento precipuamente ineffettuale, dalla fusione del ciclico auto-esaurirsi e dell’impermanente ritornare che proviene la perdurante seduzione della fiamma creativa. L’arte è un fuoco che sospinge all’esile bordo dell’incoscienza ogni frammento di senso che riesce a raccattare nella discarica d’una psicologia di massa mutata in funzione meccanizzata.

Cherry Red

L’armonia della musica richiama la quadratura, allinea le disomogeneità, rende scorrevoli le penetrazioni della materia in se stessa; e, in quella quiete, invoca la pacificazione fisica di ogni discordia elementale. Metodo di oblio, strategia della scomparsa, anticipazione di morte: ecco cosa noi preferiamo al rigore della programmazione, alla strutturazione del visibile e al procrastinarsi dell’agonia insoluta. Noi abbiamo bisogno del tempo per perseverare nel sacro sbigottimento della dynamis universale, necessitiamo d’una sponda di fiume per attendere il nostro meritato riposo. Metti su un disco.
E perché non la bella antologia dei Five or Six “Acting on impulse”? Che la sconosciate sarà la conditio sine qua non della sorpresa che vi riserva. Vedete, esiste un certo quantitativo di materia che aspira alla compenetrazione con l’ombra definitiva e, senza particolare strepito, organizza i suoi atomi sonori in canzoni densamente originali, capricciosamente ondivaghe, difformi nella breve distanza che separa la facciata A e la facciata B d’un singolo. Uno scoppiettante e sbilenco pop e subito dopo un magmatico flusso di coscienza wave; un borborigmo post-punk e a seguire un dimesso canto di sirene art-pop.
La traccia lasciata annusare dal fato a noi segugi di chicche insepolte è la perfetta “Portait” depositata in apertura del leggendario volume “Pillows and prayers” della Cherry Red, un pezzo che da solo basta a far scattare la ricerca di reperti d’una band pochissimo fortunata in vita, la cui produzione consta solo di una manciata di singoli ed ep, ma il cui potenziale – quasi del tutto insondato – ci è restituito da un paio di sparute antologie, tra cui “Acting on impulse” sembra destinata a essere la più persistente sul mercato discografico.
Se avete voglia di immaginare un bel disco di inediti degli Wire d’antan più umorali o dei This Heat più cristallini “Acting on impulse” farà al caso vostro.
Quasi quaranta minuti di atemporale, spiraleggiante diserzione dall’aderenza ai vostri dintorni.


In copertina: “Acting on impulse” (front cover, Five or Six, 2008)

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