Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 31) Bevis Frond

Non so da dove provenga la musica, se dallo spazio infinito o dagli anfratti più interiori della terra; se dalla mente di un’entità superiore o dai gas miasmatici tra cui si contorcono i vermi che rodono le carogne. Capita sovente di non riuscire neppure ad associare immagini precise a quanto vado sentendo, e nella vastità della mutabilità mi sembra che contengano un quesito irrisolto. Un’interrogazione senza parole, senza grammatica, un girare attorno a costellazioni di nervi sovraeccitati o un emanare di energia la cui fonte non è dato conoscere.
La mente è una tara irrisolvibile, la cui chimica genera a flusso inesausto risposte a domande che appaiono essenziali solo perché le risposte, segretamente, ci precedono.
Qual è la risposta che precede la domanda sulla musica? Rispondo banalmente, perché banale è il punto di vista più vicino alla grazia del non-diviso, dell’aperto spazio in cui nessun soggetto è limitato da alcun oggetto. E la risposta è: perché della musica abbiamo bisogno, il bisogno di catturare atomi di materia indifferente e dar loro l’armonia d’una forma e insieme la forma di un’armonia. Il musicista e il fruitore partecipano di un’orgia panica, che assottiglia le distanze tra i corpi, che rende superflui i ragionamenti (e ogni ragionamento è orientato alla sopravvivenza) e infine la sopravvivenza stessa. Fondersi come goccia al mare, prender parte come fiore nel prato, farsi emozione al di là d’ogni speciosa giustificazione alla medesima. Un grande disco è una fetta di cielo che sia possibile ritagliare con forbici di photoshop, e poi incollare sulle pareti sfondate della più frusta cellula monolocale di periferia. Un gran disco è sesso a pagamento che mai giunge al proprio orgasmo definitivo, che continua a sfregarsi attorno al proprio centro di piacere, a volte per tutto il corso di una vita.
“Triptych” di Nick Saloman (cioè Bevis Frond) è per me questo attrezzo di piacere malfunzionante: uno strumento votato alla mia sottomissione emotiva e dipendenza ciclica. Uno dei miei feticci poietici di riferimento.

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Nel 1988 portavo lo stigma dei quattordici anni, pesavo pochi chili e vestivo sempre di nero. Livelli di serotonina bassi e captazioni ancor più aspre. Ogni mia speranza di sopportazione dell’esistenza gravitava attorno a un regalo estorto alla nonna: una chitarra elettrica nera e a un amplificatore con tre soli effetti: distorsore, chorus e riverbero. E pensavo che per la mia vita futura sarebbero stati persino ridondanti. Non sapevo neppure che esistesse ciò che in seguito appresi essere un multitraccia: ogni nota era regalata al vuoto d’un salone in ascolto, a poltrone e drappeggi polverosi, alla sconfitta d’una dépense senza ricompense. Quante ore fosse possibile dedicare alla masturbazione dei miei propri nervi, quanta distanza intercorresse tra le canzoni di Bevis e le mie dita bramose di vuoto non saprei ora computare. Sentivo però che l’unico dolore di cui potessi andare fiero era quello di seguire con le terminazioni dei miei arti superiori le sue scale acide, mentre il suono di vecchi organi muffosi le raccoglieva come nell’urna cineraria della mia adolescenza.

Ricordo quando acquistai il disco. È uno dei miei ricordi più vividi di quel periodo. Prelevai il disco dagli scaffali e lo porsi ad Enzo, il mio pusher. Quindi Enzo mi guardò e chiese quanti anni avessi. Quattordici. “Stai attento” disse. “Poi non ti rimane altro che il suicidio”.
Non compresi subito il motivo di quelle sue parole, sebbene mi trovassero istintivamente d’accordo. A tutti non rimane altro che il suicidio, no? Il resto non è altro.
Sarà per la copertina, pensai, che mi piaceva più di quella di “Closer” dei Joy Division. Una scultura linda e armoniosa come quella del cimitero di Staglieno non sarebbe stata particolarmente adeguata ad adornare la tomba d’un pischello drogato di film dell’orrore e massacrato dai sensi di colpa. Lo spixellato gargoyle di “Triptych” sì.
Oppure, pensai, è perché questa non è roba da quattordicenni (del resto la libraia aveva sotteso qualcosa di analogo a mia madre mandata a prendermi “Guerra e Pace”. “È per mio figlio.” “Ma quanti anni ha suo figlio?” “Tredici.”

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Poi, a casa, calai la puntina, e mi sembrò di comprendere. “Into the cryptic mist” è il vestibolo d’un viaggio nell’inferno dell’inadeguatezza, l’epitome d’un quattordicenne privato di luce, un trip andato a male che ti materializza tra le lapidi di ogni occasione di gioia persa. Non c’era un pezzo di “Closer” che mi facesse altrettanto male (se non altro perché attorno alla fossa di Ian Curtis –pensavo- c’è sempre un gran viavai di gente, non così attorno alla discografia di Nick).
In qualche modo la seguente, più solare “Lights are changing” (che è annoverabile tra i capolavori della canzone neopsichedelica degli ’80) risentiva del riverbero dell’opener e, alle mie orecchie, suonava altrettanto mesta (“Oh, changing all the time” non suonava affatto come una seducente promessa per un ragazzetto senza certezze e incline alla depressione).
Ma come se il dittico iniziale non fosse bastato, la successiva “Gemini Machine” suonò ancora più minacciosa e marziale, con le chitarre che cercano di spiegare affettatamente le ragioni della condanna. Ma sono solo poche sciatte parole e, nel frattempo, con le mani ammanettate dietro la schiena, due sgherri senza espressione (due old men blank) ti stanno già accompagnando al tritacarne della vita adulta.
Nello strumentale successivo il batterista Phil esorcizza i demoni mentre un organo e la chitarra di Nick stendono vetri sui tappeti (l’immagine può essere colta pienamente solo considerando che io stavo sempre buttato a terra, tra moquette e tappeti). In “The daily round” lo sferragliare della chitarra su due successioni d’accordi in ripetizione simula la violenta banalità del bios, e occorre attendere l’immancabile (e immancando) assolo per infrangere la coazione a ripetere, introducendo almeno un vano tentativo di ipotizzare una causa libera; ma “Hurt goes on”, la traccia successiva, riconduce tutto nell’alveo della rassegnazione.
L’ultima menzione è per il brano probabilmente più bello dell’album, “Corinthian”, per i suoi dolorosi accordi acustici, per l’organo che offre loro una voce e per le iniezioni di morfina del wah wah della chitarra solista.
Per chi, come me, è nato nel 1973 e dell’utopia ha raccolto solo le briciole, Nick Saloman è stata la versione da cameretta di Jimi Hendrix. Una cameretta che, però, dava libero accesso allo Stige e a una vita funestata da DC, PSI, PSDI, PRI, PLI.

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