Qualcosa di scritto – Emanuele Trevi

In Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012) Emanuele Trevi programmaticamente intreccia piani e registri diversi, sin dal titolo, che rinvia sì alla prima agnizione di Petrolio da parte di Pasolini, ma anche alla natura bifida di questo libro, dove si mescolano scrittura saggistica e memoriale autobiografico, inserendosi, più che nell’attuale tendenza non fiction, in una tradizione letteraria in Italia minoritaria ma praticata non a caso da grandi studiosi come Brandi e Praz. Tuttavia la definizione di romanzo – diventato in questo secondo nostro millennio un contenitore sin troppo flessibile – non è astrusa né peregrina, a voler inquadrare il materiale in fieri che Trevi ci porge come un esemplare di romanzo di formazione, sottogenere che a sua volta vanta una nobile storia e sopravvivenza. Si tratta, però, di una formazione che paradossalmente non sembra né forse può esser compiuta, tanto da richiedere ritorni e indagini che già si sanno solo vicine al bersaglio.

Nel libro la narrazione della collaborazione di Trevi, allora quasi trentenne, presso il Fondo Pasolini nei primi anni ’90 – con la tragicomica e ingombrante presenza della Pitonessa Laura Betti – si alterna ad affondi e tentativi di ricognizione sull’ultimo periodo dell’artista, quello di Petrolio e di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ricognizione empatica e critica al contempo, che dà pieno conto della natura artaudiana del “corpo” pasoliniano. In effetti, quello che smuove Trevi e con lui gran parte dei lettori postumi di Pasolini, quello che, volente-nolente, lo ha reso un’ icona è la fascinazione di un autore che fonde (come appunto Artaud) in se stesso corpo fisico e corpo letterario, diventando sismografo del suo presente ma anche di rapporti ancestrali che sembrerebbero ineludibili.

Le dinamiche di violenza sottese ai due totem-tabù del potere e del sesso focalizzano gli ultimi lavori e anni di Pasolini, rivelandosi inestricabilmente connesse in un percorso cognitivo che Trevi riconduce esplicitamente dapprima ad una sorta di iniziazione e poi all’esperienza misterica eleusina, percorso che al culmine non è – né può non essere – che una visione, peraltro nello specifico, ahimè, non salvifica.

La dimensione nietzschiana di quest’ottica, di indubbia autenticità nel corpus pasoliniano, si confronta nel testo di Trevi con una realtà, romana e non, degli anni novanta completamente mutata dal genocidio già paventato dallo stesso Pasolini. E’ una realtà dove viene smarrita la natura sacrale della ricerca pasoliniana, e tassonomicamente fagocitata dal mercato la componente sadomaso, con fondazioni di club leather, profughi balcanici e svolazzanti ex-fanciulle alle prese con pratiche branding, pericolosamente contigue al marketing. Svuotato il rito della crudeltà, sembra alla fine sopravvivergli il rituale del simulacro, il mero desiderio che aspira alla sua nicchia di cult e di riconoscimento doc. Non a caso nel libro, tecnicamente concluso con il previsto “licenziamento” di Trevi da parte della Betti nello stesso anno della prima vittoria berlusconiana, si configura una sorta di postfazione: un viaggio ad Eleusi corredato anche da un portfolio fotografico (in ciò omaggiando forse la multimedialità di Pasolini), viaggio che tende quanto meno a profilare la visione misterica a lungo, presumibilmente, inseguita.

Come un lampo, titolo di questa seconda parte del libro, è la citazione di Aristotele ripresa (e tratteggiata anche graficamente, parrebbe, alla Mallarmé) da Trevi sul contenuto dell’iniziazione eleusina, da sempre ignoto, come ignota è la visione conclusiva della protagonista de “L’incanto del lotto 49”, capolavoro di Pynchon su cui si chiude il corredo di note del libro di Trevi, come ignota è al fondo ogni esperienza “mistica” per il suo ontologico fondarsi, appunto, su un’esperienza “diretta”, su una pratica nel senso etimologico del termine, intraducibile quindi nel medium limitato del linguaggio. Qualcosa di scritto può solo indicare, accennare, lasciare a futura memoria, anche il pericolo di un’iniziazione che nel traversare la crudeltà dimentica una delle componenti fondamentali di ogni percorso mistico, la compassione e quindi fallisce precipitando in quel che tantricamente è l’ “inferno vajra”. Ma le foto ad Eleusi terminano con un mazzo di fiori nella grotta di Demetra e Proserpina, dove si consumò una delle sconfitte della Gran Madre, e in questo libro uroboro, incompiuto, inconcluso, dai mille labirinti, apparentemente scritto con la levità e saggezza degli elvezeviristi del Novecento, si riassume con grande virtuosismo molta cultura occidentale maschile, ma fondamentalmente alla bistrattata, venefica, isterica Pazza che è Laura Betti viene riconosciuta la “rabbia” – dell’eros e della politica – l’amore, infine, quello che manca forse a taluni eredi pasoliniani.

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