di Daniela Pericone
Dopo la raccolta La ruggine degli aghi uscita per Manni nel 2012, Raffaele Ragone prosegue il suo dialogo in versi con l’assiduità che muove necessaria al quotidiano misurarsi con la perdita della persona amata, la cesura insanabile della sua assenza.
I testi che qui si propongono sono appena un frammento di un’opera in continua costruzione, cadenzata sulla visione interiore del testimone, il resoconto di un colloquio ininterrotto con chi si è eclissato in modo definitivo allo sguardo, al tocco degli abbracci, e tuttavia ha lasciato nei luoghi e nel tempo una miriade di segni e tracce della sua presenza, che attendono solo di essere raccolti e sottratti all’oblio. Ragone ne fa un motivo se non di vita, quantomeno di scrittura, là dove ogni verso è concepito a esplorare e incidere i frutti della memoria, nel tentativo di rendere perentorio almeno nella poesia – quasi a pareggiare i conti con la inesorabilità della fine – il senso di un’esistenza.
La figura della compagna è impressa in ogni istante trascorso, in ogni oggetto, in ogni angolo di paesaggio. La si ritrova soprattutto rievocata nell’elemento marino, “spuma / di quel mare […] che non c’è” o mare “dove si sfianca la risacca”, che assurge a specchio e simbolo della fluidità dell’essere, del mutamento incessante cui è destinata la sostanza umana e universale.
Il poeta-chimico intercetta le molecole emotive di tale vissuto e le ricombina, con l’acribia dell’attitudine scientifica che gli è propria, in forma di poesia, attraversando tutta una tradizione letteraria, dalla classicità greca e latina ai modelli novecenteschi, tra rimandi al mito e ai poemi omerici ed echi dannunziani, onomatopee pascoliane, visioni montaliane.
Ne origina un canto disteso e rigoroso al contempo, frutto del compiuto equilibrio tra tensione argomentativa e ritmo, passaggi tematici e sonorità del linguaggio.
Il mare che tu amasti
Il mare che tu amasti non fu lo stesso
che amai io, l’oceano che si svela,
l’Atlantide al rovescio dello specchio,
il vuoto che s’acquatta dentro il riflesso
indaco del cielo. Sul mare che amai io
non seppi alcuna lente predisporti,
sull’oltre che dalla luce si schermisce,
la mia nemmeno, cui pur s’offusca
il fuoco all’abbozzarsi brusco dell’ignoto.
Ne discorremmo a lungo, ma fu vano.
Il mare che tu amasti fu nell’azzurrità
del piano, l’arazzo liquido che cela
la trepidanza umana, che dei tuoi sensi
spesso fu l’ambascia. Il mare che tu amasti
non fu lo stesso che amo io, il fluido
dove fluttui, dove si sfianca la risacca
nell’eco dell’eterno contrappasso.
L’addio
E senza veramente dirsi addio
è stato forse meglio accomiatarsi
come le foglie, librandoci d’autunno
verso il lungo sonno dell’inverno,
un po’ bevendo a stille l’amarezza
di questo inaspettato separarsi.
È stato certo un bene dirsi addio,
lasciando al tempo che sfilasse
la tela del rimpianto passo a passo,
così, senza davvero congedarsi,
un po’ cedendo spazio a quest’inganno,
che non ci siamo veramente allontanati,
che non ci siamo veramente detti addio.
Strade maestre
Il tuo non fu l’oppio che ai popoli
offusca la ragione e li destina
a uno scontato paradiso. Per l’aldilà,
scovasti, invece, il passatoio
privilegiato, che s’apre a quelli
che non sanno di messali e liturgie,
ai dissidenti, ai quali ventura somma
è però data di discernere il sacro
ed il profano. Tra tante strade fatte
insieme, dopo tre anni, le tue fattezze
ancora non confondo, ma spiarle
ancora come un tempo non si può
per conoscerne il segreto, e retaggio
mi resta la cecità della ragione. Lo so
che non ho strade maestre, e che ho
perduto in te ad esse il passatoio.
Scilla
Tre anni, eppure ci sarà un perché,
se ne parlano tuttora gli angoli retti
degli incroci, le curve sbigottite
strette ai marciapiedi, l’indolenza
delle acque, che dentro ai fossi
si trascina, dove si tuffa una pioggia
livorosa, se poi ci sono esposte
dove non fummo insieme le tue foto,
e a cosa vale conoscerne il perché.
Sicché, della predace Scilla son io
tuttora un navigante, è questo ciò
che conta in fondo, e le sue braccia
affonda la mia barca in questi flutti,
dove diventa il sole dell’esistenza
incerta sfera, e un viale ondeggia
verso il suo tramonto, in ver l’oblio.
Ora ricordo: non progettammo mai
la flemma di lunghi viaggi in treno.
Ulisse
Un giorno fui, lontano, il navigante
malaccorto, il vezzeggiato Ulisse,
intabarrato nel freddo delle brume
occidentali, d’antiche costumanze
assorto al declinare stravagante
dell’estate. Che poi della vogliosa
Circe subodorassi infami inganni
non valse a rinsavirmi, e troppo
lungo tempo infine mi trattenni.
Dolci lusinghe un giorno scrissi,
certo vane, a rinnegare distanze
irrazionali, a ricolmare assenze.
Crusoè
Forse speravo il mare che non c’è,
quasi una culla senza increspamenti,
la distesa rilassante senza anfratti,
senza spiriti che tramano l’agguato.
Sicché io stetti un giorno tra i flutti
d’una cala, quasi un disperso Crusoè.
M’immaginavo il mare che non c’è,
che mostri non occulta nei recessi
dell’orrido terraqueo, la vertigine
che abbraccia la risacca degli amanti
in gioventù, l’oceano senza abissi,
senza tetre risonanze di caverne,
però sonoro al fondo del palpito
di te, che fosti tu per me la spuma
di quel mare, il mare che non c’è.
Incontri
Adesso, se va bene, t’incontrerò
talvolta nell’utopia notturna, di cui
si ciarla tanto per cabale ed analisi
freudiane. Se ci vedremo, dunque,
sarà per fantasie mentali sillabate
dall’inconscio, ma senza l’evidenza
della frequenza quotidiana. Non so
però di te se mai mi rivedrai, non so
neanche se ti saranno ancora familiari
le mie sembianze scolpite dall’assenza.
Qui prigioniero mi dibatto dell’inganno,
e tu chissà se innamorata ancora voli
per l’uccelliera del tempo e dello spazio.
Bottoni
Quadrati, tondi, ovali, traforati,
di osso o zama o madreperla,
ma tutti destinati a un fine esatto,
ad uno scopo ben preciso posti
in fila, bombati o piatti, vincolati
con un filo a un frullo detto vita,
e dava pure un senso alla tua vita
quel rumore, ma non per sempre,
lo si sa. E, se travolti, niente
a un lembo li ricuce, quando
si svincola quel filo, sono petali
disfatti, confusi, spampanati,
bianchi, trasparenti, colorati,
dispersi in una teca, sparpagliati,
l’impronta scialba d’un bel fiore,
l’inutile pleonasmo d’un rumore,
di quel frullo delicato detto vita.
(Palin)genesi
a Davide, Maria Pia, Marco
Di nuovo può accadere solamente
a primavera conoscerti germoglio,
e non ancora so la spuma che sarai.
Però essenza di conchiglia tornerai,
adagiata nel grembo d’una figlia,
che tacendo col tuo palpito già parla.
E tu, mio perso amore, fiore già colto,
abbraccio assente, che non più curi
arrivi, né congedi, già fremi ormai
per la tua voglia ardita d’incantarmi.
Inventario
Dove ho sepolto l’ùpupa che zigzaga flessuosa
– “hup-hup-hup” – oltre il mirto di Voidokilia,
il vascello affondato nel sale, l’ambra vogliosa,
la cernia che s’intana, la murena che annaspa,
Nestore l’eremita delle dune di Paliokastro?
Dove ho nascosto la pinna la ciprea di Scilla
– “ciac-ciac-ciac” – i molluschi le spume tra i sassi,
i grani spietati del tempo dispersi tra gli astri,
la macchia a ginepro bruciata, la sapida arsella,
la mano audace sulla spiaggia del Buon Dormire,
dove l’airone impettito che svetta, che grida
– “cra-cra-cra” – tra le canne di Giàlova, e nel cratere
di Perachora la sua pelle tiepida e salmastra,
la gialla medusa, la vampa che arde ogni cuore,
e sepolti nel cosmo tre tritoni di finto alabastro?
Dove s’è lasciato andare il mio cuore dilaniato
– “tum-tum-tum” – tra foto che non posso guardare
e vesti di porpora, d’ambra, di noce, d’opale,
di pelle lunare, tra lettere scordate al limitare,
dove s’è abbandonato il silenzio trafitto dell’arpa,
tra note accorate e rosari che non oso bruciare
– “shhh-shhh-shhh” – di questo inventario che tace,
troppo sanguigno, troppo ventoso, troppo vivo,
troppo amaro, troppo implacabilmente loquace?
(foto di copertina di Pino Finizio)
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Raffaele Ragone, nato nel 1950 a Castellammare di Stabia, vive a Ercolano. Laureato in Chimica e specializzato in Strutturistica molecolare, ha insegnato e svolto ricerche in campo biofisico nelle due maggiori università di Napoli e, per un anno, nell’università di Berkeley in California. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta di poesie, La ruggine degli aghi, edita da Manni, che comprende poesie scritte dal 1990 al 2009, durante vent’anni di convivenza con Anna Maria, compagna di vita e di studi scomparsa nel 2009. Dal 2007 cura il blog RaffRag’s Una Tantum, nato in origine con finalità divulgative e di commento, attualmente dedicato alla sua produzione letteraria corrente. Ha ricevuto premi e menzioni tra i quali “Lorenzo Montano” (2003 e 2006), “Alda Merini” (2012), “Salvatore Cerino” (2013), “Madre Claudia Russo” (2013 e 2015), “Akmàios” (2013). Tra le raccolte antologiche in cui sono presenti suoi componimenti, si menziona, Umafeminità – Cento poet* per un’innovazione linguistico-etica, curata da Nadia Cavalera per i tipi di Joker. Di recente, ha intrapreso la traduzione in inglese di suoi testi poetici, comparsi negli e-book del Movimento Immagine & Poesia, di cui è membro, nella rivista The Seventh Quarry e nel World Poetry Yearbook 2014.