Il cerchio d’ombra – di Ugo Reale, introduzione di Giorgio Caproni. Ed. Guanda 1979

pht : @Paola Mattioli
pht : @Paola Mattioli

Ugo Reale pubblicò la sua prima plaquette di versi, Ritorni, nel 1952, quando ancora le esche del neorealismo tentavano più d’un avannotto della poesia. Ma va detto subito che, nonostante il dato anagrafico, egli seppe decisamente distinguersi da quel clima – o in quel clima – per una tutta sua immediatezza (e pacatezza) di linguaggio, che semmai in quel già lontano esordio pareva avvicinarlo, magari attraverso il filtro ungarettiano, a certo prosciugato crepuscolarismo (Sbarbaro, meglio che Corazzini), nel senso più costruttivo di radicale opposizione al gesto e all’enfasi.
A Ritorni seguirono nel 1959 Una piccola storia e, nel 1971, Un’altra misura. Ma se la tematica è andata nel tempo ampliandosi e approfondendosi con conseguente crescita delle risorse stilistiche, quella felice vocazione di fondo, portata a soluzioni sempre più stringenti e personali anche in direzione sociale, è rimasta.
La parola s’è mantenuta volontariamente quotidiana, d’immediata presa sul lettore proprio per la sua conquistata riscoperta delle originali funzioni comunicative, dando luogo a una sorta di dettato poetico che nella sua forza vorremmo chiamare, alla francese, fusant: cioè che brucia senza spettacolari esplosioni, preferendo conservarsi sempre, nell’ininterrotta ricerca d’intima adesione alla vita, più sul rettifilo del dire che non sullo zigzagante camminamento dell’alludere.
Così anche la mappa di questo nuovo libro, che si configura come un’autobiografia e insieme come una testimonianza d’epoca, non abbisogna di molti cartigli. Essa porge nel modo più esplicito – grazie appunto al discorso estremamente lineare e diretto – l’oggetto di volta in volta toccato; e in primo luogo, un’immagine precisa del vuotoch’è nel cittadino di questi nostri giorni: del sotterraneo malessere serpeggiante, per le ragioni che tutti sappiamo ma che volentieri dimentichiamo, nella cosiddetta civiltà del benessere.
Legatissimo a Roma dov’è nato, Reale ha fatto della sua città una viva ricorrente metafora dei mali storici ed esistenziali della nostra età. Ne ha fatto il centro – la Capitale, appunto – di quelle aberrazioni e lacerazioni che – possiamo ormai dire in tutto il mondo occidentale – gettano nel nostro animo il seme, se non sempre dell’angoscia, certo di una profonda inquietudine o insoddisfazione. E il sale che si trae dalla piccola ma calibratissima imago mundi, è quella di un’accorata quanto pungente ironia, tutta esercitata contro le nuove posticce mitologie che all’uomo di Monod, incapace di trovare da solo un’altra dignità dopo il crollo dei vecchi idilliche fino a ieri lo avevano sorretto nei propri amori come nei propri furori, offre interessatamente – riducendo ogni speranza a quella del giocatore di flipper – la società dei consumi. Un’ironia, è bene precisare, che però non vuol mai essere corrosiva o distruttiva, ma che anzi muove da un sofferto desiderio di partecipazione di intervento, e insieme da un risoluto rifiuto critico dei “fatti” che il poeta, attento spettatore, vede e prevede intorno a sé.
In tale gioco, se tale può chiamarsi l’impegno etico, è virtù prima di Reale, fedele anche in questo alle sue origini, una discrezione di tono forse unica, che dona alla sua voce un inconfondibile timbro, tanto più mordente quanto più, in apparenza, disteso.
Mai una volta ch’egli alzi l’indice in veste di mentore o di moralista.
Reale non regala, forse, troppi poteri taumaturgici alla poesia. Non coltiva illusioni né pretese di rifare il mondo. Semplicemente, vuol constatare, ferito soprattutto, oltre che dalla furberia e dalla violenza non sempre guantata di chi detiene il potere, dalla cieca acquiescenza delle vittime della sopraffazione, in più d’un caso addirittura “felici” degli ingannevoli doni, e che comunque – non vedendo o fingendo di non vedere il buio che è all’orizzonte – accettano di buon animo il sistema, chiuse nel loro egoismo o immediato tornaconto, e illuse dal giornaliero appagamento di “bisogni” artificialmente creati e imposti.
Il poeta – che sempre aspira alla solidarietà, all’amicizia, all’amore, unici veri “beni” sui quali forse sarebbe possibile costruire un nuovo ordine – viene così a sentirsi inesorabilmente solo ed escluso dalla tribù. E non volendo in nessun modo abbandonarsi al lamento del cardellino accecato, fa la punta alle sue frecce e le lancia, non fosse che come tangibili segni della sua decisa volontà di non cedere, almeno lui, a nessuna specie di compromesso o di patteggiamento: alla morale dell’Avere in luogo a quella dell’Essere.

Giorgio Caproni

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Il cerchio d'ombra, ed. Guanda, 1979
Il cerchio d’ombra, ed. Guanda, 1979

Ugo Reale, Il cerchio d’ombra

da Il lieto fine

HIDE

Quel poco che hai salvato della vita
lo devi ai consigli del tuo angelo nero,
così i rari momenti in cui gli altri
t’hanno stimato, considerato dei loro.

Per tutto il resto, poiché hai voluto persistere
nell’equivoco dei buoni principi,
ti sei trovato straniero e malvisto
tra gente accorta che deve ingegnarsi
con espedienti e provvidi delitti.

Ti sei perduto su strade maestre.
Se fossi rimasto tra i vicoli,
ora ne conosceresti le regole
le scorciatoie i passaggi segreti,
sapresti come far vivere i giorni
con l’estro e la gioia del male,
potenza suprema e costante
che regge il mondo e unisce gli uomini
secondo la loro natura.


IL LIETO FINE

Chi ancora si aspetta il lieto fine
non ha capito nulla di questo tempo,
ma è il solo in grado di viverlo,
perché cammina senza timori
verso una mèta illusoria.

Altri sostegni ha la vita,
non più la ragione, o la fede,
nessuna delle vecchie virtù,
ma il grido, la bandiera sportiva
le parole crociate, lo shopping,
la speranza del giocatore di flipper.


VITTIME

Non sempre la vittima
è migliore del suo carnefice,
spesso è soltanto più debole
e nel suo cuore somiglia al nemico.


LA NOSTRA SORTE

Siamo da lungo tempo in balìa
di uomini furbi e spregevoli,
presi nei loro raggiri,
oppressi da una sorte mediocre
che unisce carnefici e vittime
e fa delle sventure una colpa.


MIDA ’70

Abbiamo guastato le cose, toccandole:
di esse non è rimasto che il nome
e a dirlo ci sembra di vincere
l’inganno della conquista.


CHIAREZZA

Chiarezza impietosa di certi momenti
quando vedi te stesso a distanza
solo tra gente nemica,
esule da cieli inesistenti
con oscure ragioni di vita
su questa terra in rovina,
senza speranza in cammino
verso un futuro scontato.


TRAGUARDO

Un giorno arrivi a capire
quanto la vita sia semplice:
tanto che non sai più viverla.


NUGAE

Io che non ho avuto nulla
nulla di quello che vale,
ora per cose da poco
mi sento ancorato alla terra,
impreparato a lasciarla.


FRAUENLIEBE UND LEBEN

[…]

III

La vita è scorsa come un sogno ostile
di violenze passate per amore,
di sensi prigionieri o forse inerti.
Vergine madre, figlia dei tuoi figli,
chiusa nel tuo non essere che madre,
non ti resta che un vago ritornare
alle speranze dell’adolescenza
e questa dedizione senza scampo,
non ripagata, al frutto del tuo ventre.


COMPROMESSI, ALIBI

[…]

<< In certi frangenti
quando l’avvenire è buio
e si sentono mille voci
è inutile chiedersi dove porta
la strada che si percorre
se c’è solo quella.
Basta ogni giorno
arrivare alla mèta:
questo è l’unico modo
per andare lontano >>.

*

<< Confesso sinceramente la mia ignoranza
sulla linea politica del mio editore.
Eppoi, per me, è una questione secondaria.
Sono uno scrittore di sinistra, certamente.
I miei atti politici sono i miei libri,
i miei articoli, le mie lezioni universitarie.
Conta quel che si scrive, non dove >>.



MESSAGGI

Scomposto il linguaggio nei suoi atomi e oltre
per la gloria dell’-ismo e la vanità dei simposi,
la struttura del dire non ha più segreti.
Ma il solo discorso che valga la pena di fare
non si sa come farlo e rivolgerlo a chi,
e ognuno torna più povero a tentare messaggi
col solo pensiero, dal fondo d’una stanza.

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