Caro Cristiano, ho letto con attenzione la tua numinosa disamina sull’alterità e lo slancio che la solitudine in pectore coltiva. Mossa dal piacere di riconoscermi in ogni sfumatura che hai sapientemente dato a pensieri che condivido, ti dedico questo Carteggio, scritto in vero anni or sono, ma attualissimo alla luce delle tue riflessioni. un abbraccio. nc
Si direbbe che apprendiamo qualcosa Intorno all’arte quando sperimentiamo Ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare. Maurice Blanchot
[….] C’è un’assenza di tempo nella solitudine, un’assenza di spazio, che traduco in parole come una “continuità sospesa”, dacché anche ciò che circonda la solitudine appare sospeso, astratto nel tempo e nello spazio, e dal tempo e dallo spazio della sua oggettiva presenza. È come se non ci fossero silenzio e rumore, o meglio è ininfluente che ci siano, poiché tutto ruota entro la sfera di un’estraneità di oggetti e fatti. Vista così, si direbbe quasi uno stato di grazia, e deve avere infatti fascino ed attrattiva che corrompono. Ed in effetti, in qualche misura – dicevo – la solitudine, che pur appare estranea a ciò che ci è reale e al contempo circostanziata all’inconfutabile centralità del nostro essere, pare essere la forma ontologica più vicina al nucleo, in cui [e per cui] presenza ed assenza sembrano coincidere con la plurale univocità del pensiero. E a quanto pare, col beneficio del mio medesimo dubbio, essa è sintomo di una malattia latente, un’affezione priva di apparente motivazione – semmai la si volesse collocare nella reale circostanzialità di fatti e luoghi, che inspiegabilmente si è soliti descrivere quali osservatori immobili [ e non lo sono, né osservatori, né tantomeno immobili ] che la scrutano nella sua impassibile cecità –. […] È singolare inoltre, e non posseggo gli strumenti cognitivi per spiegarmelo, che essa, così avulsa dalla realtà che potrebbe sì riempirne l’esistenza, si ancori ad assenze irreali apparentemente irrilevanti, disegnandosi negli sbadigli di un gatto o soffrendo delle guerre che non vive, sì da generare una serie di domande sull’esistenza di cui pareva non curarsi, che spesso lasciano esterrefatti per la loro materiale inconsistenza. Eppure, io credo che proprio in quel contrastante vuoto, soffocato dalla pienezza di insopportabili distanze, nasca la necessità di “ricreare” i fatti, le parole, i colori, le scene e le cose tutte che si percepiscono come un dato oggettivo d’appartenenza cui, in qualche misura, si sente di essere stati strappati. Quasi non si fosse altro che atomi di una memoria superiore, o solo frutto di un pensiero continuo e comune, che ha inciso nel profondo del nostro nucleo la traccia di ciò che sarebbe dovuto o potuto, ma non è stato.