a cura di Pasquale Vitagliano
Lino Angiuli (1946) è nato e vive in Terra di Bari, dove ha diretto un Centro Regionale di servizi culturali. Collaboratore dei Servizi culturali della Rai e di quotidiani, ha fondato alcune riviste letterarie, tra le quali il semestrale «incroci», che dirige con Raffaele Nigro e Daniele Maria Pegorari per l’editore Adda di Bari. Ha pubblicato dodici raccolte poetiche in lingua italiana e dialettale; tra le ultime: Daddò dadda (Marsilio), Catechismo (Manni), Un giorno l’altro (Aragno), Viva Babylonia (Lietocolle), L’appello della mano (Aragno). La sua produzione, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti e traduzioni, è considerata nell’ambito di manuali scolatici ed enciclopedie. Molte le pubblicazioni sul versante della cultura tradizionale. Recentemente, per La Vita Felice di Milano, ha realizzato due antologie della poesia europea.
Testi
Saluti da Acaia
Con la sua pentecoste di polvere
sottile cala il tempo sui terrazzi
scavalca siepi di persiane verdi
s’incarna nelle case orozecchino
dove gli uomini cuor di legume
prima mettono i dolori sotto sale
e i desideri nel salvadanaio
Quindi
vanno a coricarsi prestopresto
con le loro madonne rosine
tra pensieri ingialliti e collane festaiole
di pomodori appesi da centanni
Di notte
un accampamento di ulivi quaternari
fa la guardia al santissimo sepolcro
del buon tufo extravergine biondo.
Saluti da Seclì
E ancora va girando per le strade
una banda di tamburi e cicale
a festeggiare le nozze tra i gerani
oppure dietro cartapeste addolorate
vestite d’oro e argento come nel seicento
Ma
l’amaro muro del mare s’è già sciolto
e su un trerruote va la mezzaluna
sbarcata nei paraggi a suddare cioè
a leccare il piatto dei sughi occidentali
Ora
che il barone è scasato del tutto
ora vedremo se è vero che un tempo
da queste parti siamo stati sale
se ricordiamo quel vento manovale
che ci soffiò e rigonfiò le crete
per insegnarci a dire buon-giorno
come cristo domanda
e la barba di maometto pure.
[Dico che pure le zinnie possono]
Dico che pure le zinnie possono
dire la loro ballando un valzertango
appassionatamente
col geranio longobardo re della veranda
passato remoto di tuttaltre biografie
quando io e noi senza saperlo
andavamo in campagna a cogliere cicale
aggrappate a una controra
me le ricordo bene come friggevano
tenacemente
dentro il loro ardente deprofundis.
Al Ahad: orazione per il principio di tutto e tutti
Padre nostro e soprattutto loro signore del maestrale
e delle cimici cosiccome dell’homo a volte sapiens e
della carota rossa ti prego passa da un salone fashion
a tagliarti quella barba finta poi riaffiora ex novo dal
tanfo umido delle cattedrali erette sulla tua password
sguscia dai battisteri e dagli altari maggiori affrescati
damascati indorati per invetrinare la tua onnipotenza
Lasciati guardare senza camicia nudo tremante dentro
lo stomaco schifoso del forno di treblinka et similia
dico a te che ti lasci tirare la giacchetta di qua di là
chi ti mette saette in mano chi ti fa pezzentare amore
ti prego fermaci non vedi che ti stiamo scassando il
giocattolo di cui vai fiero nei libri scritti a mezzadria
letti riletti da mattina a sera in ogni lingua conosciuta
Che te ne fai di tutte le messe cantate e dei deogratias
degli incensi che ti sfrugugliano le narici e degli amen
che sperterrano dalla nostra mente di mezze calzette
creature sguincie che ogni ora si sciacquano la bocca
tra genuflessioni salamelecchi baldacchini a bizzeffe
ma poi passato il santo passata la festa addio bonnuit
poco importa se andiamo a letto con gli idoli in corpo
Miglia e miglia a macinare ossigeno rintracciare luci
è una vita che vado balbuziando il tuo nome my god
per scavare un centimetro d’anima dentro la carne
lungo la catena di montaggio di pensieri parole opere
omissioni tra gli sberleffi del malamente piantagrane
è una vita che mi giro di qui e di lì senza accorgermi
che tu stai dentro una boccata d’aria come a casa tua
Anni e anni di appostamenti per cercare d’acciaffarti
e appenderti al collo quasi bottino di caccia grossa
anni e anni a prendere le misure di ogni tua parola
quando basterebbe infilarsi nei panni di un tramonto
che fa l’interiezione tra il celeste e l’arancione senza
allentare fosforo bianco sulla vita dei più innocenti
come fanno certuni sbattendoti sulle loro bandiere
Ma oggi caro allah padrone di mosche e di moschee
di fronte al tuo turbante che non mi turba per niente
oggi mi pento e mi dolgo con tutto il cuore residuato
d’aver bevuto fiumi e torrenti quando non tenevo sete
di aver comprato e rivenduto alambicchi ambulanti
alla fiera dei riflessi cangianti che non quagliano mai
mi pento e mi dolgo nella tua lingua se necessario
Per tutte queste ragioni cui non basta una sola regione
a suono di campane oggi t’invito a buddare con me
sotto un fico di quelli grandiosi dove da oltre centanni
sto a imboccare la strettola che porta dritto a salam
per poi u scire dall’ombelico di fronte al tuo alto zero
in quel posto preciso in cui vige l’antico almanacco
degli algoritmi azul appesi alle ali di angeli nostrani.
Mi battezzai
Mi battezzai d’estate nell’umida fiasca d’un bacio
apertosi come un mar rosso e poi non s’è più chiuso
a dispetto delle glaciazioni e di nottate maldestre
che fecero amianto dalle parti della milza all’incirca
mi cresimai d’autunno con una figlietta di extra-olio
arrivato senza chiave per le grandissime occasioni
ivi compresa la terzultima unzione d’una bellissima
orecchietta tarantolata proprio sulla cima delle rape
in primavera poi mi sono accasato tantissime volte
con una campana sperdutasi dentro l’aria rubacuori
l’aspettavo qui all’angolo del mezzogiorno in punto
me la mettevo sotto a cavalcioni e ce ne andavamo
insiemando a cogliere due benedizioni di cartapesta
disseminate in inverno da un anticlone degli azzurri
quellolì che mi sfiata sempre appresso da una vita
contandomi a volo un’enciclopedia di fatterelli miei
ad esempio la storia di questi due occhi mezzosangue
che si rivoltano caposotto ma ancora non vedono l’ora.
*
Tra me e la cappella della pioggia maestra di grigio
Tra me e la cappella della pioggia maestra di grigio
si stende una sera enorme quanto il lago maggiore
biodegradabile al centopercento più o meno come
le lacrime e tutto ciò che mi inumidisce l’ossario
allorquando anche il cielo si abbassa le mutande
così da acchiapparlo con un pensierino rasoterra
resuscitato dalla muffa come un cavolo a merenda
eppure buono a trasportarmi altrove tutto intero
è forse questo il tempo giusto per ridare la corda
ai sorrisi arrugginiti che fanno capolino dalle foto
ai memoriali che salgono su una scala senza pioli
e scendono con una cesta di frasi infreddolite
il tempo giusto per farmi amico quel cipresso lì che
ogni giorno mi fa buongiorno con la mano mentre
m’invita ad adacquarla bene la mia beata solitudo
perché cresca tanto da far rima con sola beatitudo.