Cucendo i fili della vita- LA SARTA di Marilena La Rosa- recensione di Ivano Mugnaini

di Ivano Mugnaini

“L’ironia e l’allusione sorridente”, sono due caratteristiche del testo, due motivi floreali saltati all’occhio di Corrado Bologna, autore di una recensione di questo libro pubblicata su “L’Indice dei Libri del Mese”. Si tratta di fili tessuti, non di applique. Niente di posticcio, niente di comodo e di rapido da sistemare ma altrettanto rapido da perdere o da strappare via. Nel libro di cui parliamo, tutto è accuratamente intrecciato, ricamato, lavorato a maglia. Con l’occhio concentrato e le mani zelanti ma con la mente che nel frattempo vola libera per traiettorie avulse a intessere storie nelle storie, mondi nei mondi. Fino al momento in cui non si distingue più il dritto dal rovescio. O meglio, fino al punto in cui dritto e rovescio hanno le stesse forme e gli stessi colori.

Ironia e allusione sorridente sono parole solo in apparenza lievi. Ognuna ha un peso specifico notevole, reso ancora più consistente dal genere e dal contesto di questo libro. La sarta è, ufficialmente, una favola. “Una favola lunga”, così la definisce la stessa autrice. Ma mentre lo scrive, ne sono certo, lei stessa sorride, ironica. Siamo di fronte ad una favola che ogni volta che si trova di fronte una barriera, una delimitazione, salta la staccionata come faceva il protagonista di un’antica pubblicità. Anzi, qui oltre al volo acrobatico c’è anche lo sberleffo, il gioco, con l’aggravante, o il merito ulteriore, della consapevolezza, seppure velata dall’aurea “fiabesca”, tra l’incantato e il sublime.

Viene fatto allora di riagganciare di nuovo il filo alle parole di Bologna che evidenzia e sottolinea “una leggerezza leggermente surreale, intrisa di magico e di fiabesco, ma capace di strepitosi colpi di scena”. Le trovate, i salti e le danze nel buio delle stanze chiuse sono il valore aggiunto di un libro che dietro il velo della sua natura di volume dall’aspetto quieto ed elegante, rassicurante potremmo dire, in realtà cela profondità tempestose, vulcani sotto la superficie, passioni tanto più ardenti quanto più trattenute e compresse dall’argilla delle regole sociali, della buona educazione, delle convenzioni.

“La sarta”, o meglio la sua ideatrice ed autrice, Marilena La Rosa, cuce con i fili della letteratura la vita. O forse ricama e rammenda la vita con la fantasia, in quello spazio indefinibile e incoercibile nella terra di nessuno tra verità e immaginazione. Non è dato di sapere quanto l’autrice si identifichi con la protagonista del suo libro. Con ogni probabilità se le venisse posta questa domanda direbbe che è un libro di pura e semplice fantasia. Ma a questo punto sorride di rimando, come in una partita a tennis o a biliardo, anche il lettore, che, nell’atto di assentire, in realtà dentro di sé pensa quanto siano sfuggenti sia il vocabolo che l’aggettivo ad esso abbinato. Oscar Wilde osservava che “la verità non è mai pura e raramente è semplice”. Credo che lo stesso si possa e si debba dire della fantasia, specialmente in un libro come questo in cui dietro la linearità sussiste un livello ulteriore, frutto con ogni probabilità di una lunga, meticolosa, divertita e rigorosa preparazione a monte. Inoltre, ancora prima, sussistono le letture dell’autrice, avidi innamoramenti nei confronti di libri diversi per origine, collocazione geografica, stile e genere ma tutti accomunati proprio dal sovvertimento della realtà tramite la magia del pensiero e del desiderio, delle virtù e delle debolezze, di tutto ciò di cui è intessuto quel misero e mirabile “manufatto” che è l’essere umano.

La verifica indiretta ma assolutamente probante del valore e dell’originalità di un lavoro letterario è la capacità di generare critica ispirata. Questa affermazione mi è venuta in mente leggendo la recensione di Bologna (riavvolgiamo il nastro, anzi, il gomitolo, e torniamo al filo da cui siamo partiti). La sarta ha permesso a Bologna di riprendere i capi del discorso e di cucire a sua volta una narrazione sulla narrazione, letteratura sulla letteratura che, in prima istanza, aveva come materia prima e fonte di ispirazione altri libri, altri romanzi. Una sorta di domino in cui invece di sottrarre si sommano altri tasselli, estendendo il discorso e il mosaico dei punti di vista e di connessione.

Il libro di Marilena La Rosa è costituito da “una tramatura finissima di richiami letterari”, annota Corrado Bologna, rilevando la presenza di una “cultura raffinata che si addobba da nonchalance: e chissà quanti ce ne sono ancora, nascosti”. Eccolo qui, dunque, il gioco nel gioco: l’attività di caccia al tesoro che ciascun lettore potrà proseguire.

L’autrice di questo libro è colta, preparata, ma non fa sfoggio, non sciorina al vento la sua biancheria e i suoi abiti più sgargianti. È troppo brillante per propinarci quello che sarebbe un esercizio sterile, un virtuosismo, un vano “gigioneggiare” (per dirla come il Bruno Pizzul delle più agre telecronache). Sarebbe vana la lettura di questa fiaba agrodolce se non andassimo oltre la pagina per poi tornare alla pagina, diversi, altri da noi. Riforgiati, ritessuti.

Non è un caso annotare, qui ed ora, che ciò di cui siamo fatti, le fibre stesse del nostro corpo siano denominate tessuti. Siamo anatomie di analogie e contrasti: punto rasato diritto, punto rasato rovescio, punto rasato ritorto, punto legaccio, punto riso. A volte, con una forzatura (ma forse neppure troppo) viene fatto di dire che siamo anche “punto pianto”. Ma con l’ironia che ci dà, a tratti, la forza di reagire, la forza di cambiare, o almeno di vedere le cose come davvero sono, che poi spesso è il contrario di quello che appare. Perché ogni filo, ogni maglia, è necessario ribadirlo, ha un dritto e un rovescio. E a tutti noi è capitato di vestirci al buio e ritrovarci con l’etichetta sotto la faccia, o con la faccia sotto l’etichetta.

Pirandello, silenzioso e inesorabile, avanza nella calura e ci osserva. Osserva noi che leggiamo questo libro che racchiude anche il suo sguardo volutamente strabico, di sguincio, obliquo e sghembo.

C’è la Sicilia, in questo libro: ci sono i suoi autori, pigri e maledetti, tra filosofia e appetito, Empedocle e Gorgia, caponata e pasta di mandorla. Hanno assorbito quel senso di vita sospesa, passione feroce e volontà di annichilimento, pigrizia e frenesia. E poiché le distanze geografiche svaniscono in un istante tra le righe di un libro, accanto alla Sicilia c’è il “profumo di Sudamerica, con quelle vite minime, con quel paese strambo che è un universo a sé dove si può sognare di vivere sott’acqua come Cola Pesce”, e, qui, seguiamo il consiglio di Eliot e “rubiamo” un altro brano a Bologna.

Yumiko, la protagonista del libro, confeziona abiti fatati. Hanno il potere di far scoprire a chi li indossa il suo vero essere, ciò che veramente sono. “Ho voluto cimentarmi in un esperimento letterario: creare una storia connotata dalla leggerezza, popolata da personaggi gentili e da altri feroci che galleggiano in un’atmosfera onirica ma speculare a quella reale”, ha scritto l’autrice parlando di questo suo lavoro letterario. Ha aggiunto in seguito altre considerazioni riguardanti lo stile: “Il linguaggio è poco convenzionale, lontano dall’uso moderno che preferisce la sinteticità e l’immediatezza. Ho recuperato l’uso dell’aggettivazione esornativa, attenta e minuziosa, della subordinazione descrittiva, ho mescolato termini aulici col parlato quotidiano. Spesso i personaggi più ‘bassi’ si esprimono in una lingua più ‘alta’ e viceversa, i personaggi più concreti usano il linguaggio della poesia e quelli più eterei un registro improntato sull’uso quotidiano”.

Il linguaggio è sempre rivelatore. Lo è in ogni caso e più che mai in un libro come questo che è allo stesso tempo sentito e pensato, costruito in un laboratorio di idee che ha sempre tenuto tuttavia le finestre bene aperte, per respirare i profumi della vita vera, quelli delicati e intensi e anche quelli venefici. Il rosso e il nero, la luce e l’ombra. Come ha evidenziato graficamente Maurizio Torrisi, l’autore della copertina del libro, sintetizzando con quel contrasto che diventa sintesi, e con quel roteare di pensieri, il fluire ininterrotto di una mente.

Peter Schlemihl, il protagonista della Storia straordinaria di Chamisso, incontra uno strano uomo che acquista la sua ombra e gli offre in cambio una borsa magica dalla quale è possibile estrarre all’infinito monete d’oro. Siamo di fronte ad un abile trucco, un furto che priva il giovane della sua identità. La sarta Yumiko, al contrario, propone e attua una forma di “contratto” differente: a chi ne ha il coraggio, propone una specie di specchio invisibile, dalle proprietà particolari. In grado di mostrare la realtà interiore, la verità nascosta. Tesse i fili al contrario, sciogliendo i nodi della paura e dell’attrazione per “l’altro da noi” che poi è, forse, ciò che veramente siamo. In cambio non chiede ombre e neppure ricchezze. Se non il privilegio, immenso, di avere storie da raccontare e da vivere. Con tutto il bene e tutto il male, la bellezza e l’orrore, la gioia e la pena del vero, vissuto e immaginato.

Fino al punto in cui la sua ombra più intima, la sua essenza fragile, cade nella trappola più sublime e micidiale: l’amore. Associato ad esso, sempre presente, il suo contrario. Non anticipiamo niente per non togliere a chi leggerà il gusto della scoperta. Ci limitiamo ad annotare che la precisione geometrica con cui si manifesterà la reazione alla violenza subita è perfettamente consona e allo stesso tempo ossimorica. Quasi un dantesco contrappasso.  

Ciò che colpisce, in questo libro, è l’approccio, l’idea e il modo in cui viene espressa, resa racconto: la scelta e l’istinto di ritagliarsi uno spazio autonomo, un sentiero pochissimo battuto, una favola per adulti disillusi ma non abbastanza da non sapere sorridere quando si ci immagina con una M gigante sulla maglia o con la voglia di ascoltare ancora, nei recessi della mente, versi che si baciano.

Questa fiaba per adulti spazia in mille generi. Non si ferma di fronte a un omicidio, elaborato, compiuto prima con il cervello che con le mani e le armi da taglio. La violenza, quasi alla Hannibal the Cannibal, si mischia ad un senso di lievità che è consapevolezza, acuta e volutamente bambina: in fondo, per quanti acuminati e caldi siano i nostri ferri e i nostri occhi, altro non siamo che tessitori a nostra volta tessuti, ricamati con divertita distrazione e agra fantasia da altre dita e da altre menti, chissà come e chissà dove.

Ma siamo talmente strani, mirabilmente semplici e complessi, come questo libro, per continuare a tessere a dispetto di tutto, le nostre storie, mezze vere e mezze false, mezze malvagie e mezze buone. Siamo così bislacchi che alla fine ci affezioniamo ai fili che ci strangolano gradualmente. Abbiamo abbastanza fantasia da rovesciarli e farne un abito nuovo, talmente colorato, denso di memorie di cose viste e sognate, che perfino gli dei, dal loro distante e caotico Olimpo, ci guardano perplessi e divertiti, a tratti, magari, perfino benevoli.

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