ICONE. La poesia è una grazia terribile: nota a Edeniche di Flavio Ermini.

Con la nota a Edeniche di Flavio Ermini si inaugura oggi la rubrica Icone curata da Carlo Ragliani. Icone si propone di celebrare il senso della parola – così come appare – senza dover fornire necessariamente una tendenza personale o polare, ed insistere in una indagine riflessiva sull’opera per restituirne una visione unitaria e sintetica. Icone avrà una cadenza, almeno inizialmente, mensile.

 

La poesia è una grazia terribile. Nota a Edeniche (Moretti&Vitali, 2019) di Flavio Ermini

Edeniche di Ermini non è di certo una silloge dall’assimilazione semplice poiché il disegno complessivo dell’opera, ispirato a ragioni filosofiche di stampo sistematico, suggerisce al lettore l’idea di una raccolta riassuntiva di molti anni di esperienza sul campo.

Propria di questa raccolta è la lucida ricerca del significato originario del percepito; alla poesia ed al suo significato è affidato il compito di ricongiungere il piano metafisico – affine alla filosofia platonica, per cui dall’idea primordiale derivano le emanazioni terrene ed empiricamente esperibili, come dimostra anche il dettato per cui insiste la “somiglianza tra il sole e il fuoco” – alla realtà, come risultante del complesso casuale di fatti e di esperienze, “al cospetto di un chiaro verdetto di condanna”.

Per questo, la natura medesima della poesia – “in quanto simulacro del primissimo inizio”, “che nasce quale speranza e gioia per incupirsi alfine nella pena” – non può che approdare alla riflessione sul senso originario dell’esistenza; per converso è proprio della figura del poeta il ruolo di riscoprire la funzione fondamentalmente sacerdotale che coniughi la parola – rectius, il procedimento rituale per cui ci è concesso di definire la realtà, “svelando che c’è il deserto dopo il regno intermedio” – al mondo esterno, rappresentato come insieme di relativi senza fine e senza scopo, immersi in una cinica casualità (confermando un’immagine della natura più leopardiana che edenica in senso biblico, senza obbligo di “rendere poi quel che promette allor”) in cui tutta si manifesta la finitezza degli esseri, e, con essa, la differenza e la contraddizione del “frastagliarsi in tanti margini dell’unità primordiale”.

Tuttavia; se “nessun medicamento può essere apportato alla devastazione / che subiamo nascendo”, se “sono profonde le afflizioni che la materia impone / con la povertà di un’esistenza” costretta al suo eterno “precipitare”, e se l’uomo è “l’incerta creatura da poco tempo generata”, come è possibile pensare alla “salvezza” a cui ci può affidare “la luce originaria”?. A questi interrogativi Ermini risponde con “la ricerca poetica” che “nel richiamarsi alla natura, è […] una grazia terribile, un’armonia fondata su abissi e precipizi, su un’intollerabile sofferenza.”; di questo danno prova le Edeniche, dimostrando necessaria “l’ascensione al cielo / in omaggio al divenire che in terra si distende” attraverso quelle “piccole ali” di cui sono muniti i viventi dal “piccolo grido”.

Se “il tempo che testimonia la sostanza” degli uomini, castigati da una “penosa dissoluzione che mortifica l’essere umano per la vita che gli resta”, e quanto “testimonia il mortale” si districa in un collettivo terrificante di esseri “consapevoli di morte”, polari ed esposti “all’assoluto contrasto che si afferma”, non può che essere fallibile ciò che “di fragile argilla è fatto”. Per questo l’atto di condurre il lettore – e forse l’umanità tout court – attraverso l’instabile e costante variazione della vita, per cui “il mistero del mutamento” è fondamentale in Ermini; pertanto la ragione della sua poesia non può che essere il rivolgere all’armonia originaria, anteriore a ogni vissuto, la necessaria riverenza, se non anche la nostalgia di quanto perduto – probabilmente – per sempre, dal momento che il tempo ci aggredisce col suo “devastante potere di annientamento”.

“Sotto un cielo che a fatica designa la quiete aurorale” l’autore ci conduce entro le cose tramite un verso profondamente evocativo di uno stato mattinale, “capace di minare ogni nostra persuasione”, in cui il dettato si manifesta ricco di uno stile intenso e sacrale – la cui ponderata fecondità ottiene spessore non solo dal quid comunicativo, bensì dall’evidente conoscenza del sapere antiquo more – per guidare “[…] chi ancora vive / ignaro della forma perfetta dei cieli” verso “la compostezza dei morti”, ed in questo accompagnare al poeta è il ruolo religioso di psicopompo, poiché si fa carico di indicare tanto “dell’anima il graduale impoverimento”, quanto quei ceppi per cui “il marchio dell’obbedienza […] con dolore fa pensare a molti uomini in catene” per rendere evidente “il moto aurorale dell’esistenza a cui, morendo, facciamo ritorno”.

Protendendosi al senso primo dell’assoluto, verso “le relazioni che espongono i giusti all’aurora”, l’autore intende la parola come unico modo per adempiere al dovere di ripensare la domanda sul significato della realtà, partendo dall’ipotesi per cui, se la poesia è pensiero completo, comprensivo della logica razionale ed a-razionale, dunque il dettato poetico non può che dimostrarsi come responsabile principale della parola; ed il suo farsi, attingendo al significato etimologico, non può che essere il percorrere una ricerca nella poesia, per restituire il mortale “figlio della terra” alla “comune origine” che “designa la fratellanza tra tutti gli esseri del mondo”.

Carlo Ragliani

 

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la forma perfetta dei cieli

nel carattere albale di vaghe sembianze
proprie dello spirito che bagna la terra
dove soffre ogni pena l’umano che appare
è nota da tempo la compostezza dei morti
pur se occultata sulla linea di faglia
del moto affannoso di chi ancora vive
ignaro della forma perfetta dei cieli

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il mistero del mutamento

al moto incerto del sangue verso la sua dissipazione
si oppone il sangue che bagna costantemente il cuore
nel mistero del mutamento cui ogni vivente è sottoposto
quando testimonia il prodursi di una lingua
in base alla quale i mortali statuiscono di parlare
pur essendo destinati a perdersi nel tumulto
di una metamorfosi che mai si rivela così compiuta
da essere con una certa precisione misurata

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la terra dei petali e delle foglie

nella bruma si disvela la terra della sera
consentendo a chi vive ignaro della fine
d’incedere lieto verso il giardino
tra grumi ordinati d’inchiostro e di cera
in armonia con tutti quei petali e le foglie
configurandosi nella morte come un’obiezione
alla somiglianza tra il sole e il fuoco dei divini

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il giardino delle insopprimibili alterità

tra veri e propri enigmi si muove la figura umana
impegnata com’è a superare lo stato d’isolamento
intorno al quale nel giardino si articola la vita
in quanto elemento d’insopprimibile alterità
non riconoscibile al tatto né al fiorire del corpo
che sulla nostra esistenza nel sangue si affaccia
con il sottrarsi all’abbraccio dell’uomo con la spada

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il cantiere del regno

prima di ogni altra terrena esperienza
si celano nei boschi popolati dell’antro
tutti quegli esseri consapevoli di morte
che portano con sé nel cantiere del regno
il profondo degrado dell’umano progresso
in questo discontinuo andirivieni di creature
invano impegnate a sottrarsi alla fine

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la superficie del buio terreno

al suo elementare sottrarsi dal grande corpo
sulla superficie del buio terreno si fissa
l’impronta iniziale del destinato al risveglio
sia pure con l’inganno tra le onde e le foglie
affinché quanto può essere torni alla luce
per testimoniare semplicemente la vicenda mortale

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il vuoto impreciso

incede senza uno scopo definito
il mortale che ciecamente si consuma
nel fondare il mondo sulla ragione
cui la sorella del sonno si nega
quale testimone dell’oscurità che si cela
nell’impreciso vuoto del presente

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il fiume dei relitti

ci richiama all’amarezza la sostanza indefinibile della nascita
cui siamo assegnati unicamente per gravitare intorno ai relitti
che dall’acqua si sollevano allo svanire di tutte le altre forme
certificando noi vecchissimi nella corretta posizione di naufraghi
circoscritta dai limiti all’uomo assegnati nella vicenda terrena
che nasce quale speranza e gioia per incupirsi alfine nella pena
esattamente come fa il metallo che in principio in purezza suona
per poi forgiarsi in lama tagliente allorché viene posto in relazione
con la terra che ancora non abbiamo imparato ad abitare

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