Franz Krauspenhaar in viaggio con Francis Bacon

“Il pittore in molte foto della maturità ha davvero l’espressione e l’andamento del classico vecchio frocio. La leggendaria giacca di pelle risplendente sotto le luci artificiali, il trucco in faccia ben posto, i capelli tinti color Chupa Chups alla cola, il viso tra l’assente e il beffardo” (pag. 63).

E’ questo, per osmosi con le peculiarità dissacranti della sua scrittura, il ritratto che Franz Krauspenhaar dipinge di Francis Bacon al termine della sua opera “Un Viaggio Con Francis Bacon”, Zona editrice (2010), dove l’autore si cimenta in uno schizzo biografico, che è anche autobiografico, sul grande artista inglese. A esser più precisi, è uno schizzo biografico sull’arte di Bacon, che si pone in modo trasversale tra la narrativa e il saggio, all’insegna di una letteratura che travalica ogni genere letterario, creando ex-novo la forma ibrida che più gli si addice.

In principio, troviamo Franz indagare su alcune opere di Bacon, e scoprire subito che il suo modello preferito, George Dyer, è omosessuale; lo evince “dalla torsione del corpo, da un’oscenità difensiva della posa; e dunque anche il pittore che ritraeva quell’uomo indubitabilmente lo era” (pag. 5). George Dyer è l’amante del pittore, ed è un pugile, questo ispira all’autore-protagonista l’analogia tra l’arte di Bacon e la boxe: “Credo che la pittura […] sia una specie di incontro di boxe improvvisato con la propria fantasia. Dico boxe perché c’è un grado di violenza fisica, in tutto questo […].” (pag. 9).

Un altro sintomo caratteristico dell’arte baconiana sono le pennellate rosso-carne, se non rosso-sangue, dei suoi ritratti, il cui significato simbolico viene così spiegato dall’autore: “Il rosso è il colore del sangue, del mestruo, della violenza eseguita, come è eseguito il ritratto […] I volti di Bacon sono carne messa ad arrostire, strato su strato, e però ne rimangono integri gli occhi” (pag. 8 e 10).

Proseguendo nella lettura di questi dodici capitoli non numerati, troviamo un personaggio, Franz Krauspenhaar, che specchia la sua vita e il suo immaginario nelle opere che via via studia, assimila, e talvolta sfoglia (come fossero foto del settimanale ‘Chi’) dell’artista inglese. Lo vediamo arrancare, annoiarsi, e poi attivarsi, scrivere una poesia sull’artista inglese, prendere la macchina fotografica e scattare foto da gialli metropolitani in stile Milano calibro 9, lo vediamo entrare nel Palazzo Reale di Milano insieme a una donna, forse corteggiata (di certo osservata) per gustarsi la mostra su Francis Bacon, e allontanarsi da lei con indolenza, senza dire una parola: troppo distraente la sua presenza, ma forse anche troppo discreta, troppo sbiadita di fronte alla carne che rigurgita dai quadri baconiani.

Il viaggio di Krauspenhaar con Bacon si qualifica sempre più come viaggio interiore, cerebrale, dove i dipinti dell’artista sono prismi di diffrazione che portano le loro onde verso mete letterarie e cinematografiche che illustrano l’immaginario dell’autore: “Céline, uno scrittore che metto sempre in relazione con Bacon per il suo tentativo inesauribile di raffigurare la sporcizia e le ferite e i gonfiori malati di un’anima umana conscia della propria infelicità, ma sempre con grande vigore” (pag. 12).

L’ansia del protagonista non è quella razionale, catalogatrice dello scienziato, bensì quella archetipica dell’artista che con la sua intuizione, con l’occhio creativo del narratore rivela arcane corrispondenze e comparazioni estetiche: “Bacon dipinge certamente l’orrore, ma anche il caos. Il caos è il suo elemento e questo, tramite specchi riflettenti, egli lo duplica, lo triplica. Duplica e triplica le espressioni facciali, frantumando persino il cubismo – questo momento dannatamente antiestetico dell’arte contemporanea, dannatamente brutto, a mio avviso – dandogli una dignità umana” (pag. 20 – 21).

L’occhio del narratore diventa poi occhio del poeta, che vede nessi analogici ancestrali: “Il pittore era partito dalla deformazione di un uccello e poi questo si è deformato trasformandosi in nuove forme. I contenuti sono spinti ad essere dalla forma, è come un parto, dalla forma della donna fuoriesce il contenuto del suo ventre, il bambino” (pag. 34). Di fronte a quest’ultima annotazione, mi si impone alla coscienza il concetto di “deformità”, di certo connaturato all’arte baconiana, ma anche, tornando indietro nel tempo, emblematico dell’arte di Henri de Toulouse – Lautrec. Questo ho pensato scrivendo il mio primo romanzo, “A occhi aperti”, Zona editrice (2019), firmato con lo pseudonimo Jean Aquaviva, dove il protagonista, un critico d’arte, usa queste parole per definire l’opera di Lautrec: “La sua pittura [era] il tentativo di cogliere l’alienazione latente negli individui che frequentavano i lucenti salotti della Parigi di fin-de-siècle […] l’esasperazione dei tratti somatici più appariscenti delle persone; la vacuità degli sguardi dei principali tipi umani da lui raffigurati, siano essi prostitute o loro clienti; la mancanza di di profondità dei corpi […]. Deformazione dell’umanità e dello spazio.”

Proseguendo nel viaggio, Krauspenhaar, dopo aver dato giudizi taglienti sul cubismo, ha poi il coraggio di sposare la sua passione per l’artista inglese e lasciarsene guidare fino a ridimensionare la statura di altri surrealisti, come Magritte, “solo un bravo illustratore che fa della letteratura per immagini” (pag. 36) mentre Bacon non fa letteratura, Bacon fa “letteralmente urlare” le sue opere, opere che non hanno messaggi da veicolare, né moniti sul futuro: “La sua voce è chiara e roca allo stesso tempo: la voce di un omosessuale provato dal vizio, dal bere, dal fumo. Non crede in nulla, se non nella materia dell’oggi, nel fatto che si è a quel tavolo a bere, un secondo dopo l’altro. Sul futuro non può dire niente, non c’è altro che il momento presente” (pag. 40).

E’ un Franz Krauspenhaar corroso dal dolore per la morte del padre rievocata dal suo romanzo capolavoro “Era mio padre” (Fazi editore, 2008) quello che descrive, interpreta e vive l’arte di Bacon, tra citazioni cinematografiche (che spaziano dal Marlon Brando dell’Ultimo Tango a Parigi al Franco Franchi dell’Ultimo Tango a Zagarolo) e rimandi analogici, metafore e simboli, teste esplose e carne tumefatta del mattatoio.

Quando arrivo a leggere: “Ecco, il dolore e il male rappresentato da Bacon mi sembrano alla fine coinvolti in una strana purezza naturale. E’ come se l’uomo baconiano, afflitto, sconfitto, frustrato, sia preda di un male naturale che è puro, perché inevitabilmente intricato con la natura” (pag.44), non posso fare a meno di pensare che avrei dovuto leggere questo bellissimo libro, fonte ricchissima di immagini rivelatrici, prima di scrivere il mio: ne avrei ricavato preziose suggestioni. Il passo relativo al “male naturale” baconiano mi evoca un pezzo del mio romanzo, dove il protagonista scrive: “Van Gogh esalta la terra, la natura rappresentata in tutta la sua violenza in confronto al mondo civile […]. La tortuosità delle linee descrive il tormento della vita nuda e cruda, e questo tormento si vede nell’erba, nel cielo, nel grano, pervade ogni singolo elemento naturale […]. L’intero paesaggio sembra forgiato da uno spirito, lo sguardo di Van Gogh si direbbe animista; la natura che rappresenta, crudele e ineffabile, persegue un suo anelito di vita, indifferente a quello dell’uomo.”

Bacon e Van Gogh a confronto: il primo esprime la natura con il dolore di cui sono impregnati i volti tumefatti, sanguinanti dei personaggi ritratti, il secondo con la violenza delle pennellate raffiguranti un paesaggio, erba alberi cielo, che si muove con veementi contorsioni segniche.

Siamo quindi di fronte alla raffigurazione di un dolore crudele ma non esibito, rabbioso, senza pietas, tutt’altro che tragico o arrendevole: “La pittura di Francis Bacon non commuove, non lacrima, non si lamenta, non è nemmeno per davvero drammatica. E’ la rappresentazione di un estro immenso al servizio di un necessario disincanto. E’ quel che è, surrealismo come unica possibilità di un vero realismo al di là di ciò che vediamo” (pag. 45). Una rappresentazione del dolore che non ha facili paragoni nella storia dell’arte contemporanea: “Non ci sono eredi, ma figli adottivi che fabbricano sculture da cadaveri, addobbi per iperspazi […] Ho detto dei figli adottivi, ma non ho pensato ai padri. Un certo Picasso maturo ma non ancora disturbato totalmente, e Velasquez, per la luce. Ma il vero padre, ché questi altri sono solo adottivi, è il Carracci delle macellerie” (pag. 57 e 65).

Il viaggio termina laddove era iniziato: sulla figura dell’artista, quasi ridimensionando la portata deformante, sanguinolenta della violenza del dolore rappresentato: “Bacon è disturbante, mai retorico, mai veramente sopra le righe, anche se qualcuno potrebbe asserire il contrario” (pag. 64).

E’ con questo ultimo ritratto – che sia anche un inconsapevole autoritratto artistico? – che Franz Krauspenhaar suggella una delle sue opere brevi più ispirate e ricche, un testo generoso che dona grandi emozioni carnali e intellettuali al lettore, un testo in cui l’autore può dar sfogo alle sue migliori qualità: la scrittura disinibita, frammentaria, istintiva, che spazia dal registro alto a quello basso, dalle citazioni colte a quelle nazional-popolari più lubriche cui l’autore riesce a dare interpretazioni inaspettate, riuscendo con disinvoltura a intercettare significati reconditi che le rendono degne di ogni accostamento. E’ un Franz Krauspenhaar a suo agio quello che troviamo in questo libro, perché con la sua conoscenza enciclopedica e con la  spregiudicatezza che gli è tipica – incurante della critica bon ton di sinistra – , si muove dalla pittura di Pollock alla letteratura di Kundera, dal cinema di David Lynch e dalla televisione di serie B di George e Mildred fino alla musica di Franco Califano, e il lettore resta stupefatto, sconcertato, incredulo e solo alla fine si rende conto di non aver letto un saggio narrativo su Francis Bacon bensì una imprevedibile biografia cerebrale dell’autore, una sorta di elettroencefalogramma con le sue inesorabili e insospettabili connessioni neuronali, con la sua altalena di picchi edonistici e depressioni post-visuali la cui inventiva sfiora il triviale dei porno di Moana Pozzi e si innalza al sublime di un Bacon-Malone di Samuel Beckett: “Tutto si gioca sull’occhio che non solo vede, ma che rende tutto visibile anche agli altri. A quest’occhio avvolto dal magma della forma contraffatta nei ritratti e negli autoritratti di Bacon come all’occhio spaventato del personaggio beckettiano […] che si spaventa di se stesso e, oltre, anche della visione che ha di se stesso” (pag. 52).

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