Il miracolo di Bruce Springsteen: Western Stars

Uscito il nuovo album di Bruce Springsteen, un grande album. Un miracolo, come questa canzone:

 

Bruce Springsteen, Western stars
Per avvicinarsi al nuovo album di Bruce Springsteen si può fare un giochetto: leggersi i testi, ancora prima di ascoltare la musica. Perché Springsteen, come ci insegna lo storico Alessandro Portelli, non è solo un grande musicista. È un narratore dell’America profonda, che non dimentica la lezione di John Steinbeck. E in Western stars c’è un nuovo capitolo del suo grande racconto, un affresco di perdenti, solitari e reietti che il Boss dipinge con la solita empatia e un gusto per i dettagli da consumato romanziere.

L’unica vera novità dal punto di vista tematico è la senilità: molti dei protagonisti delle nuove canzoni sono vecchi e stanchi, come forse comincia a sentirsi un po’ pure lo stesso Springsteen, anche se a vederlo non lo si direbbe. Manca invece la politica, grande protagonista del precedente Wrecking ball (non tengo nemmeno conto di High hopes, trascurabile raccolta di inediti uscita nel 2014).

Nel brano che dà il titolo al disco per esempio il protagonista è un attore fallito, invecchiato, stanco, che per cominciare la giornata si fa portare dalla truccatrice “un uovo e uno shot di gin”, che deve prendere il viagra sennò non riesce a fare sesso e dorme in mezzo al deserto in California, dove di sera dalla sua veranda passa “un coyote che ha in bocca il Chihuahua di qualcuno”. L’unica cosa che lo consola è il ricordo di quando, tanto tempo fa, ha recitato con John Wayne. In meno di cinque minuti c’è così tanto materiale da scriverci un racconto. Drive fast (The stuntman) sembra invece la canzone gemella di The wrestler, splendido pezzo scritto per la colonna sonora dell’omonimo film con Mickey Rourke, e descrive uno stuntman che non riesce a smettere di drogarsi. Anche il cantautore (ovviamente fallito) di Somewhere north of Nashville scatena subito empatia.

Nel corso della sua carriera, Bruce Springsteen si è preso qualche pausa solitaria dalla sua E Street Band, a partire dal capolavoro Nebraska, passando per The Ghost of Tom Joad negli anni novanta e Devils & dust nei primi anni duemila. Da un punto di vista della scrittura e degli arrangiamenti Western stars, prodotto da Ron Aiello, segue questo solco, lasciando da parte il rock e concentrandosi sul folk, il country e il pop alla Burt Bacharach, attingendo ai grandi spazi della costa ovest evocati nel titolo. Ma la vera novità dal punto di vista sonoro è l’uso massiccio dell’orchestra. Del resto il Boss ha citato tra le fonti d’ispirazione Wichita linemandi Glen Campbell, brano di pop country di fine anni sessanta, ma anche il cantautore Jimmy Webb o il compositore Aaron Copland. A tratti infatti sembra proprio di ascoltare una colonna sonora di un film (a Springsteen del resto scrivere per il cinema fa bene, basta pensare a Streets of Philadelphia).

Western stars non è certo inattaccabile: ha qualche battuta a vuoto che, ironicamente, corrisponde a due dei singoli pubblicati prima dell’uscita del disco: Tucson train ha una melodia orecchiabile ma sembra uno scarto di The rising e There goes my miracle è uno dei pezzi più brutti mai pubblicati su un disco di Springsteen. Ma l’album, dopo un calo nella seconda parte, si riprende con una piccola perla nel finale: la ballata folk Moonlight Motel è ambientata in un albergo di provincia, dove non passa mai nessuno e “i denti di leone crescono nelle crepe del cemento”.

Una scaletta senza riempitivi, magari di nove o dieci brani, sarebbe stata più efficace. Eppure nel complesso Western stars è un album riuscito e anche piuttosto unico all’interno della produzione del cantautore statunitense. Non ha la pretesa di regalare singoli alle radio, e questo è un bene. Gli anni passano, ma la voce di Bruce Springsteen è ancora in grado di raccontare l’America in modo sincero.

https://www.internazionale.it/bloc-notes/giovanni-ansaldo/2019/06/15/bruce-springsteen-western-stars-recensione

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