SEGNI, CIFRE E LETTERE /Nel fermo centro di polvere. Le visioni poetiche di Marco Ercolani

 

(…) Vento nel mare:

il desiderio che finalmente ritornino,

non come un miraggio della terra, si increspino

 abbiano il nome di onde. 

(dalla sezione Insonnia)

 

Pubblicato da Il Leggio Libreria Editrice (2018), nella collana Radici curata da Gabriela Fantato, Nel fermo centro di polvere è l’ultima raccolta poetica di Marco Ercolani.

Come la poesia di Renè Char, che Ercolani non fa mistero di apprezzare (cfr., il suo recente L’archetipo della parola. Renè Char e Paul Celan, Carteggi Letterari Le edizioni, 2019), la poesia di Marco si conferma, ancora una volta, autentica.

È una poesia antiretorica, appartata e profondamente colta quella di Marco. Una poesia inventariale direbbe Montale. Una poesia che non ha bisogno di palcoscenici e teatrini urlanti e che non crede nel discredito altrui come strumento per la propria affermazione e legittimazione. Quella di Marco è una poesia consapevole e sicura di sé, una poesia che ha la schiena dritta e che fa del silenzio la sua cifra essenziale. Non lo nascondo: per chi come me, detesta ogni forma di invadenza nei confronti del mondo e del linguaggio, la sua è una poesia preziosa.

Ho scritto che il silenzio è una cifra essenziale della poetica di Ercolani. In realtà, il silenzio è un qualcosa di più, di ulteriore. Il silenzio rappresenta il perno fondamentale di ogni sua indagine, il silenzio è l’approdo a cui tende la parola. Ma attenzione: non può mai essere il silenzio dell’inizio, deve essere il silenzio del viaggio – ci dice lui stesso, rispondendo a una delle domande finali della curatrice Gabriela Fantato (pag. 60).

Diventa necessario corteggiare il silenzio per mettersi in ascolto del mondo e scriverne; il rumore distrae, altera le percezioni (…) – il segreto è tornare, e tacere – scrive Marco in una delle poesie più belle del libro (pag. 40). Quel silenzio, tanto ricercato e indispensabile, ci regala una molteplicità di visioni siderali: leggiamo di un silenzio fitto di voci,/ fine violenta/ all’ordine del canto (pag. 15), di Testimoni muti, bocca serrata, l’oro scrostato dalle guance,/ impossibili/ come l’orma di un vivo nel regno dei morti (pag. 26) e ci imbattiamo in un Cielo basso, ammutolito dove l’incantesimo è quello delle dita sulla pelle (pag. 55).

Lo scrittore deve vivere l’impulso del nomade, l’esperienza di uno stupore sempre nuovo, perché la poesia è linguaggio allarmato, meraviglia per quanto non è ancora pensabile e dicibile – dice sempre Ercolani alla curatrice rispondendo a una sua domanda (pag. 60). E a me torna alla mente la preziosa lezione di Mario Luzi dove il silenzio non è solo assenza di suono ma piuttosto un insieme di voci in potenza, strumento per cogliere la meraviglia dell’attorno.

Il silenzio non è tuttavia la sola struttura portante del libro. Anche il buio e l’acqua partecipano alla sua architettura complessiva in modo importante.

Al pari del silenzio, il buio sembra favorire la concentrazione e dilata la capacità di osservazione del poeta. La luce rischia di distrarlo, ne inquina lo sguardo: visibile per grazia di buio/ sarebbe questo l’universo? si chiede Marco lasciando velatamente intendere la risposta (pag. 49).

In una pagina bellissima del libro, leggiamo di un Buio agli occhi (che si fa) vertigine (pag. 12) e, ancora, di un buio non incantesimo ma guida. Per viaggiare senza possedere (pag. 13) e, poco oltre, del buio dell’andare (che) è l’unico bagliore (pag. 13). D’improvviso, ci troviamo di fronte a una terra scavata dal buio/ senza numeri e lutti (pag. 28), e, incontriamo mani abbandonate nel buio che lavorano un segreto (pag. 34).

In un successivo verso il poeta ci confessa di imparare a memoria il buio come un lungo accordo sottopelle (pag. 39) e poco oltre, ci sussurra che Veniamo da un buio/ in cui raccontano/ esista soltanto, né freddo né caldo,/ un vento lungo identico/ nostro: l’eco delle prime immagini (pag. 41). Anche le Nuvole/ più complesse del buio (…) (pag. 42) suscitano continui interrogativi (…) Senza occhi nuovi, come illumino il buio?/ Qui vive/ chi non vede, chi si finge cieco.// Ma la mano esatta descrive gli invasori,/ li disegna, li prevede (pag. 53) e, infine, Nel buio incido/ gli occhi che saranno miei (pag. 57).

L’acqua è invece la sostanza stessa del viaggio, il suo fascino e il suo pericolo – dice Marco, sempre rispondendo a una delle tre domande di Gabriela Fantato (pag. 60).  L’acqua è architettura chiara (pag. 43) e numerosi sono i riferimenti alle onde, al mare (che nasce e torna, trema e/ balbetta, sussulta e danza, pag. 20) alla schiuma viva e a quella opaca, alle odissee e ai ciclopi, alla navi, all’oceano, ai pesci, agli scogli, ai fari, ai coralli. Confina con l’acqua ogni foresta ci confida splendidamente il poeta (pag. 19) e lavorare le parole ferite dalla paura significa in fondo ritrovare la sabbia prima dell’acqua (pag. 54).

Dal suo centro fermo di polvere, punto privilegiato di osservazione e di fuga, Ercolani si guarda intorno e con generosità ci restituisce il resoconto dei suoi viaggi. E se è vero che la poesia in quanto enigma è esperienza dell’inconciliabile perché tutto non è mai come appare e l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio, (pag. 59), allora questo è indiscutibilmente un libro di alta poesia.

Facendo propria la lezione di Kafka, fra te e il mondo scegli il mondo – Marco rifiuta il ruolo di narratore onnisciente, quasi si mette da parte, e da lì, da quella posizione defilata, ci suggerisce di lasciarci andare e di abbandonare i progetti prudenti perché le parole sono dove non credi e conoscenza è aria/mai nostra, miraggio (pag. 58).

Ercolani non ci offre però mai la visione raggiunta, e quindi netta e chiarificata del viaggio ma, la ricerca stessa che lo affatica per giungere dalle regioni del confuso sentire a quelle di raggiungimento della luce. E lo fa in maniera così efficace che a me tornano alla memoria le parole di quell’altro grande poeta che risponde al nome di Dylan Thomas: La poesia può penetrare la chiara nudità della luce più di quanto non lo possano le intime cause scoperte da Freud.

Del resto che cosa sia il lavoro poetico Ercolani lo sa bene e lo dichiara senza la minima esitazione: Il lavoro poetico?/ Rigorosa lapidazione./ Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare/ le parole nel foglio vuoto/ (…) Finalmente non capire (pag. 24), e ancora, Chi scrive per capire il mondo / ne subirà il definitivo addio (pag. 20).

Questi versi, in uno con la citazione di Yves Bonnefoy posta in esergo della sezione da cui trae origine il titolo del libro (Urta/Urta per sempre./ Nell’insidia della soglia./ Contro la porta, sigillata./ Contro la frase, vuota), completano quella che appare la sua inequivocabile dichiarazione di poetica: la poesia è lapidazione, la poesia è sottrazione, la poesia è un continuo procedere urtando.

La voce di questo poeta reclama un ascolto e ha una trasparenza talmente favolosa che è difficile sottrarsi a quel richiamo. Colpisce l’oggettività espressiva di questi versi che rifiutano ogni orpello, ogni complicazione linguistica anche dove l’esercizio metrico si fa raffinato e complesso. La ricerca di Ercolani è legata alla composizione complessiva del testo, c’è sempre un grande controllo e una grande attenzione alla musicalità: le poesie di questo libro sono schegge che si articolano da parola a parola, da suono a suono, presentandosi come frammenti di un grande mosaico. Un mosaico musicale dove potrebbero tranquillamente alternarsi  in sottofondo Liszt e Ravel, Offenbach o Chopin. Colpisce la straordinaria intensità di linguaggio di questo poeta, la sua delicatezza, la sua capacità di scavare nel profondo delle emozioni giungendo all’origine sorgiva e misteriosa di quel niente chiamato  –io.

Mi ripeto, ma lo voglio sottolineare ancora una volta, questa è una poesia grande. Una poesia di cui prendersi cura.

 

Una mia selezione di testi tratti da Nel fermo centro di polvere (Il Leggio Libreria Editrice, 2018):

 

Dalla sezione: Qualcosa di terrestre e di dolce

 

Lei tace, tu abbandoni le braccia.

Torna segreto, il sole.

Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.

Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.

Soffierà, forse.

In cima alle pietre.

Buio agli occhi. Vertigine.

Naufraghi sul tavolo.

 *

 

 

È la rotta dello specchio a impedirti il sonno?

Oltre il vetro dorme uno straniero.

Aspro, in piena luce, è tornato

il freddo. Abbandonato,

il corpo riscrive il suo abbandono.

Dietro le palpebre rovesci gli occhi:

ascolti, cieco, musica nuova,

bisbigliata ai prigionieri di un cielo incomprensibile.

Partiamo, il buio

non incantesimo ma guida.

Per viaggiare senza possedere.

Scrivere senza parlare.

Respirare senza promesse.

Possiamo. E il buio dell’andare è l’unico bagliore.

*

 

Torre alta. Parto da qui.

Il bianco che le onde lasciano alla notte

È schiuma viva, dove l’acqua evapora:

restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.

Io parlo da qui:

insperabile reale limpida

voce.

Respiro, ma ai miei giorni

Manca qualcosa di terrestre e di dolce.

 

Dalla sezione Miraggi tornati parole

 

Parole come miraggi dall’erba, note dove rinascono storie.

Narrarle è navigare: confina con l’acqua, ogni foresta.

La matematica di rotte impossibili

è il codice numerico della cattedrale,

la sua incrollabile arcata.

Il mare minaccioso abbaglia.

Nell’aria un peso di cose sprofondate altrove.

Un pericolo lontano, una febbre

di altissime pietre.

*

Vagabondo delle stelle, disertore delle cose.

Ma oggi, il corpo eretto, i piedi pronti all’impeto del volo,

i talloni tesi sul gradino, la valigia slacciata dalle mani,

le dita dalla ringhiera,

cerca un cosmo possibile, non nato

non nato ancòra.

*

 

La terra: scudo per fantasmi.

Il mare arriva alle mie visioni ora.

Nasce e torna, trema e

balbetta, sussulta e danza.

C’è, nell’abisso della parola, uno spazio

dove scendere e salire.

Chi scrive per capire il mondo

ne subirà il definitivo addio.

*

Vaga semivestito, dorme semifolle, non trova casa.

Teme di svegliarsi con capelli non suoi.

È un’anfora rotta nel mondo-mondo.

Dorme seminudo, vaga semifolle. Teme

non sa quali onde.

*

Quel remoto mondo di terre e miraggi

è la deserta, bianchissima Fez?

La domanda abissale «in quale ora siamo nel mondo?»

è di Woyzeck, voce rauca, sangue sulle maniche.

Risponde un accordo di sei note.

La settima sibila nell’acqua vitrea,

sotto i rossi cavalli a dondolo.

*

 

Il lavoro poetico?

Rigorosa dilapidazione.

Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare

le parole nel foglio vuoto.

Leggere le pagine di chi fu vivo

e guardare la bellezza del cielo:

ritardare il congedo dal mondo,

léggere, non

scrivere più,

smettere di ripararsi dal cielo.

Finalmente

non capire.

 

Dalla sezione Nel fermo centro di polvere

Testimoni muti, bocca serrata, l’oro scrostato dalle guance,

impossibili

come l’orma di un vivo nel regno dei morti.

Angeli scolpiti in attesa del volo

sentinelle di sepolcri

(in una terra che è stella di pietra)

vegliano verso e dal vuoto,

non indicano superfici da possedere

ma labirinti da percorrere.

Se il labirinto è lo specchio dove scendere

la scala è il riflesso da cui salire.

*

Dalla sezione: E allora

 Spine

 Altre moltitudini: scriviamo per cercarle.

Terra smossa, buchi di paradiso.

Né bellezza, né terrore ma spine d’ombra.

E il fumo, il fumo

mai veramente lontano.

 

Tornare e tacere

 A chi mi chiede, scrollo la testa.

È un no a ogni domanda:

appena ricorderei

qualcosa come odissee e ciclopi,

uno spazio invaso da navi e acqua,

il mondo interrotto dal ritmo del navigare

fra cieli sotterranei.

 

Il segreto è tornare, e tacere.

Ciò che ha vibrato

Tradurlo in brevi bisbigli e rinascere

in silenzio, la nebbia dissolta,

in una vaga fedeltà

di testimoni di nulla.

 

Dalla sezione Insonnia

*

Ci rivediamo

come se il mondo dovesse iniziare solo ora,

cappio troppo alto,

urlo troppo basso.

La notte è lunghissima giocano bambini

alle risposte

Chi sta crollando?

Che dal precipizio

si sollevino stormi

e la scia generi luce

e tutto diventi attonita ragione estatica

misura delle cose.

*

 

Questo, lo splendore? Questa

la terra dove credevo di tornare?

Senza occhi nuovi, come illumino il buio?

Qui vive

chi non vede, chi si finge cieco.

Ma la mano esatta descrive gli invasori,

li disegna, li prevede.

Loro arrivano, ma senza un suono.

Arrivano, al culmine della notte,

e dopo, niente.

Dopo restano le dita,

segni da tracciare.

*

 

Questo mio corpo

canterà, tornerà vivo.

Se vuoi imparare, ascoltalo.

Chiamalo

mentre arriva da te, osservalo

tutto.

Le parole sono dove non credi:

pelle, piedi, capelli, la mano

che ti stringe,

forse il libro

del quale saremo voci.

Conoscenza è aria

mai nostra, miraggio.

 

[La foto in apertura di articolo è di Jacques Henri Lartigue. La foto dell’autore è di sua proprietà]

 

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