SEGNI, CIFRE E LETTERE : nota su QUINTA VEZ di MARIA PIA QUINTAVALLA (a cura di Francesca Marica)

Nel titolo c’è una domanda. E ha il sapore della provocazione. Anne Sexton lo ha affermato convintamente, La donna è madre di se stessa/ È questo che conta. Lo ha affermato, ed era il 1962.

In QUINTA VEZ (Ed. Stampa 2009, 2018), Maria Pia Quintavalla, rimanendo fedele al suo intenso percorso poetico, torna a indagare quel rapporto arcaico e antico che lega ogni donna alla propria madre. Madre, nella doppia veste, di soggetto e oggetto dei primi desideri, del primo amore, della prima ferita.

Un rapporto quello tra madre e figlia complesso, contraddittorio, spesso conflittuale che si articola su piani diversi: reale (così il reale non ricondotto a interrotte somiglianze), ma anche archetipo (materno segreto come/ guardare in faccia l’eterno) e analitico (riparare in se stessa sua luce sua/ ombra questa ancora (quanto)) – come la poetessa osservava già in Le Moradas (Empiria, 1996).

La cognizione del femminile materno appartiene a Tebe, è un fantasma originario, incollocabile nel tempo e nello spazio, un fantasma impensabile, impossibile, eppure concreto. La madre si costituisce come matrice e nucleo originale dell’esperienza dinamica del vivere. Questo il punto di partenza ma anche quello di approdo.

Anne Sexton probabilmente aveva letto Jung. E Quintavalla deve avere  letto, e bene, entrambi. Ogni madre contiene in sé la propria figlia e ogni figlia la propria madre, ogni donna si amplia per un verso nella madre e per l’altro nella figlia – si legge in Aspetto psicologico della figura di Core (Bollati Boringhieri, 1969). Da questa partecipazione e fusione nasce l’incertezza nei confronti del momento ‘tempo’, continua Jung: da madre si vive prima, da figlia poi. La vita singola si eleva al tipo, all’archetipo del destino femminile in generale.

Demetra e Core dunque, in un gioco continuo di richiami e incastri.

Facendo sue queste intuizioni fondamentali, Quintavalla ci mostra ancora una volta come il materno, ma più in generale il femminile tutto, altro non siano che segni di apertura e chiusura del mondo, la nascita e la morte diventano confini della creazione, scorci entro cui ci è consentito il viaggio. Ogni madre apre a una nascita e con la nascita a una morte. Si è sempre e contemporaneamente figlia e madre della propria madre in un sentimento che, come ci insegna Jung, non può che essere di liberazione del tempo.

QUINTA VEZ è un libro d’amore e di morte. Un libro di rinascita, di comprensione e, in ultima istanza, di perdono, di riappacificazione. E se è vero che il punto più alto delle perversioni femminili è rappresentato dall’amore materno (così, Louise Kaplan in Perversioni femminili, Raffaello Cortina Ed., 1992), questa perversione realizza qui una delle sue massime espressioni. QUINTA VEZ è un volver, lo svolgersi di un destino che diventa scrittura, l’urgenza di un legame che chiede di essere declinato al tempo presente nonostante l’impossibilità di un suo dispiegarsi quotidiano, come confermano i versi di Mauro Maconi posti in esergo Ci incontreremo ancora in questa distanza.

A essere protagonista indiscussa di questo nuovo romanzo in versi è sempre China, all’anagrafe Gina De Lama, la madre della poetessa. Quintavalla dimostra di conoscere approfonditamente Melanie Klein e i suoi studi, Il più grande amore di una donna è la madre, e non a caso, nella sua produzione poetica, China è sempre stata una presenza costante, un faro, una guida.

In Cantare semplice (TAM TAM, 1984) ne vengono ricordate le origini magiche (nata da un albero magico/ mia madre stava male/ io fui il ramo/ salvato e benedetto), in Il cantare (Campanotto, 1991) si legge la mia signora naturale è una madre/ di latte statua bianca l’ho fatta/ ma solo per poco/ ride ascolta nelle parole/  nostre lacrime e saliva.

In Le Moradas (Empiria, 1996) si fa cenno al suo essere assente, forse altrove, vittima di mal celate irrequietezze, lei madre assente anche quando era presente (spesso ti dissolvevi andavi/ via ed io imperfetta ne ordino l’ordito muto/ diniego di muta esistenza la sua incandescenza)/ è motivo della mia gloria sempre).

In Album feriale (Archinto, 2005) China è beatitudine di piccolo rosa e piccolo giallo che forava il bianco dell’aria mentre, in China. Breve storia di Gina tra città e pianura (Effigie, collana Le stelle filanti, 2010), se ne ricorda il momento della sua dipartita – Era questa una zona del tempo/ dove ruspe per l’aria, e macerie/ cadevano per terra come stelle fitte,/ pezzi di realtà volavano cedevano/ senza dolore: mia madre era morta.

Più recentemente, in Vitae (La vita felice, 2017) China emerge in tutto il suo vigore e la sua sensualità (…) era donna di incomparabile bellezza, carnale e gioiosa nel cuore, dalle mani danzanti con noi bambini. (…) La sua voce era canto, la sua pelle risuonava melodie speziate, il seno pieno e morbido odorava di avena, le mani erano piccole come i piedi, il naso deciso e altero, una piega improvvisa le serrava le labbra, a volte. (…) Mia madre parlava e rideva ancora con noi nella sua lingua, ma alla presenza di estranei si affrettava a parlare uno stentato italiano, un po’ latino, come quello che in chiesa era cantato nelle messe domenicali. E ancora, poco oltre, (…) D’altra parte fosti tu la sua bambina che lui chiamava “la giapponesina”, per la frangetta nera e gli occhi nero liquido di china (…) eri inesausta nel narrare: tutto rapivi al volo del racconto, nei dettagli di un’epica solenne, e noi tutti lì vinti, ad ascoltare il verbo, il verso.

 

QUINTA VEZ è il libro che racchiude e sintetizza ogni precedente esperienza poetica di Quintavalla e tutte le sezioni del libro, evocative sin dalla titolazione, ne sono la prova tangibile.: Pre natale (ai non nati), Mater, Mater II, Quinta vez o del ritrovamento, Le sorelle.

Pre natale, (ai non nati), è il momento dell’incontro mistico tra la poetessa e la madre ormai morta (intendevo farti dei cenni e lasciare che le due anime conversassero subito, liberamente). Il momento dell’incontro diventa il luogo della possibilità di una resurrezione (tu eri là, e me cercavi), della progettazione di un dialogo in uno spazio altro (eravamo libere e insieme sole, parlammo?).  Ed è lì, in quella specie di mondo sommerso, che le due donne si incontrano di nuovo dando avvio a una corrispondenza di amorosi sensi. Lì China viene continuamente evocata, se ne ricercano i fili (mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili/che quei fili ho cercato amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli), le tracce (c’eri tu e interamente, come figura che lo spazio occupato da te indicava, e ti ho fatto cenno di posare dove volevi), la corporeità (se nessuna foglia ti chiamava, ti sapevo accanto sulla soglia: eri tu che cercavi un varco, avevi bisogno di alitare tra noi).

Mater e Mater II sono le due sezioni centrali del libro e, a giudizio di chi scrive, anche le due sezioni portanti, quelle maggiormente significative.

Lì il dialogo si fa polifonico e si assiste a una piccola sovversione: sulla scena non ci sono solo più China e la poetessa ma c’è anche Sara – che della poetessa è figlia. Sono versi filmici quelli contenuti in queste due sezioni, campi lunghi che continuamente aprono a nuovi mondi e nuove percezioni.

Le due sezioni, scardinando il concetto logico di tempo, sono invertite. In Mater, Quintavalla non è solo figlia ma anche madre di una creatura che vede appartenere a un mondo nuovo, a una vicenda personale e storica diversa e comunque più libera più umana perché non conosce guerre né latitudini del nero e il novecento appena lo ha leccato, come osserva Cucchi nella prefazione. In Mater II, Quintavalla torna invece a essere solo figlia, alla ricerca del suo disperato, insopprimibile bisogno di verità.

C’è un tempo che è di sdoppiamento in queste due sezioni. Due sono una, scrive la poetessa.

 

Lei è cresciuta non parla la tua voce, si legge in apertura di Mater.

Lei non ascolta/se cammina non ti vede più/ sei tu alle spalle, la conosci/ dal silenzio dei passi, lei non corre/ più accanto alla tua vita ma davanti (…) Lei scrive in versi la sua notte/ si trucca gli occhi, ride. Si seduce. (…) Ogni mattina/ chiude piano le porte.

Lei è più felice di te che, di fortuna/ la vedesti nascere alla vita./ Lei tace ride, si compiace. Aspetta/ i tempi delle se radure.

In Mater II, Io scrivo China per pulire è l’esordio forte. E poco oltre, Dentro l’aria entra la voce/ che piange, che punisce, dice, Va lontano/ maledicta, né amata o stupefatta/ di male, e di dolore. E ancora, A sera: la sua voce che danneggia, è lei la lepre/ con modi che scardinano, che bucano/ nel viola; e non serene fa/ tutte le mie giornate, le impoverisce/ nuove, le violenta/ come in un fumetto orribile.

La sezione Quinta vez o del ritrovamento, è quella più estrosa in cui Quintavalla realizza una breve allegoria della seconda vita di China. Con un atto psicomagico, China ci viene presentata come una madre fanciulla risorta in terra di Castiglia.

Belle le gambe e belli gli occhi oscuri, forti le braccia nel danzare danze di vita, China, integra e infante già molto intenta a fidanzarsi/ con la dea fortuna che lei sentiva chiara,/ scriveva storia di cantari stanchi e/ di cavalli picari, di lestofanti pronti alla guerra/ e lei non più morire.

Libera da obblighi e doveri familiari, China va incontro alla vita desiderata.

Non si sposa e non fa figli, ricerca mondi andalusi e canti di Castiglia ed è libera da insegnare che beltà ha nome/ di regale follia, di andamento virtuoso/ in più spumoso. China diventa prodigio di canzone/ meravigliosa creatura in luogo chiaro, si legge in chiusura di sezione. China è felice, forse per la prima volta nella vita. Si è riappacificata anche con se stessa. Ha smesso di essere assente.

Le sorelle è la sezione conclusiva del libro. Lì Quintavalla approda al dialogo teatrale, ci troviamo di fronte a una prosa pura. La storia è materia inerte per la poesia e l’incomprensione e l’incapacità di dialogo tra le due protagoniste femminili finisce per assumere una valenza anche politica.

Una delle sorelle, quella maggiore, dice ai genitori Vi lascio, vado via, mi sposo, Perché così alle donne, borghesi e parmigiane, era dovuto. L’altra, quella minore, invece lotta e si fa partecipe del suo tempo rinunciando a stare dalla parte giusta, dalla parte delle donne ‘normali’ che mettono su famiglia.

Dopo un apparente avvicinamento tra le due, non si compie la redenzione sperata, e l’arrivo di un temporale suggella il loro addio definitivo (nel crepuscolo, entrato ormai nel buio, faticano a trovarla, l’uscita, ma poi, in silenzio, una a piedi, l’altra in bicicletta, infilano il cancello una dopo l’altra, senza voltarsi, e credendo di essersi salutate, forse una delle due mormora qualcosa. Dopo questo incontro non si parleranno più). Questa è l’unica sezione del libro a rimanere irrisolta, la lontananza tra le sorelle è tale da pregiudicare ogni ipotesi di comprensione e dialogo.

Un lavoro complesso questo di Maria Pia Quintavalla, dove spesso la versificazione ha toni aspri che si muovono su un terreno però etico, regalando una visione alta della vita. Un lavoro che non tradisce quell’attenzione alla parola che nel percorso della poetessa è sempre stato determinante.

Significato e significante, metrica e musicalità: si confermano ancora una volta gli ingredienti essenziali per approdare nuovamente a quella forma di terrena metafisica della poesia (così Andrea Zanzotto, in Cantari dolorosi. Sulla poesia di Maria Pia Quintavalla, 1990).

La parola scritta diventa elemento spettacolare e veicolatore, in un qui e ora, necessario per vestire di nuova luce e consapevolezza la realtà che è stata e che potrà essere.

Alle confessioni intime (di notte,/ la notte aperta fra lenzuola io parlo/ a voce alta comprimo/ anzi comprendo sentendomi negare/ per ogni via il calvario/ di madre crocifissa) si mescolano le costruzioni del discorso più impersonali (gemono porte, c’è pena/ sotto la volta di Milano, intanto/ punge una natura/ bistrattata con il suo passato;/ la paura non è la mia – /ma femminile e forte l’io che sognava/ ieri-) che mantengono tuttavia nel lessico e nella sintassi del quotidiano il loro referente preferenziale.

Un lavoro questo di Maria Pia che ci insegna come la scrittura possa diventare strumento di comprensione e trasformazione continua e la qualità del femminile spesso coincida con una ricettività che si rinnova e si riapre continuamente: il femminile accoglie il bene e il male e poi li separa con amore, come avviene nelle fiabe. Anche quelle dai finali ancora aperti o da riscrivere con pazienza e zelo.

 

(la prima foto dell’autrice è di Michele Corleone, la seconda di Edoardo Fornaciari)

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