CONSONANZE E DISSONANZE / L’asino di Godard: “Tasàr. Animale sotto la neve” (Moretti & Vitali, 2018) di Ida Travi

Con Tasàr. Animale sotto la neve giunge a conclusione la saga poetica in cinque volumi di Ida Travi, dedicata ai Tolki (popolo immaginario, che prende corpo innanzitutto nel parlare, come segnala la derivazione dall’inglese talk) e ambientata nella terra – “familiare e ignota al tempo stesso”, come ha osservato Francesca Matteoni – di Zard.

In ciascuno dei cinque libri – Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011), Il mio nome è Inna (2012), Katrin, saluti dalla terra di nessuno (2013) e Dora Pal, la terra (2016) i precedenti – vi è un protagonista diverso, e in Tasàr. Animale sotto la neve è l’asino Tasàr a guadagnare centralità. L’evocazione dell’asino protagonista di Au hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson è esplicitata non solo dal nome scelto, ma anche dalla nota al testo incipitario (p. 11), e rimane poi una costante tematica del libro fino a poter attribuire a Tasàr le connotazioni sacrali (“L’animale è sacro, non dovete / trattarlo così”, p. 74) e cristologiche già rintracciate da numerosi studiosi nell’asino del film di Bresson. Tuttavia, seguendo una ben nota storia etimologica e culturale, è sacro, innanzitutto, ciò che è sacrificabile: in virtù di questo – insieme ad altre ragioni più circostanziali, che rinviano, in ogni caso, alla condizione di mortalità che è propria di ogni essere vivente – tutta la vicenda del libro è, come scrive Daniele Barbieri nella sua postfazione (p. 138), intrisa della “sensazione di un pericolo incombente, di una difficoltà costante”.

Barbieri riconduce la sottile angoscia che pervade Tasàr alla “tensione costante che pervade la voce che dice io” (p. 138); allo stesso modo, i Tolki possono essere interpretati in senso lacaniano come dei parlêtres (p. 137). La lettura del libro apre tuttavia ad altre possibili interpretazioni: oltre alla già citata dimensione del sacro, emergono con una certa frequenza elementi di una quotidianità che è certamente precaria, dal punto di vista esistenziale, ma tende in ogni caso verso una certa referenzialità (“C’è la falce, c’è la lattina, c’è la forbice / c’è il sacco, e il ticket già timbrato / c’è il foglio già strappato dal vento…”, p. 68). Ad acuire questa tendenza è poi, in termini più generali, la ripetizione di brevi sintagmi (per fare solo un esempio di uno stilema in realtà assai frequente: “Guarda – diceva il corvo nel suo manto nero / guarda, guarda – ripeteva la cornacchia / guarda, com’è scuro il mondo, laggiù, laggiù…”, p. 78), che costituisce, in primo, luogo il segno della costruzione dialogica della narrazione poetica, ma che evidenzia anche una particolare volontà di presa sul reale, probabilmente non destinata a compimento, ma sicuramente colta in questo suo farsi e in questa sua tensione.

Tornando al potenziale epilogo tragico che turba la lettura, Tasàr procede, come già il suo predecessore, au hasard, all’interno di un movimento nomadico che coinvolge anche gli altri personaggi del libro e della saga: Sunta, Ur, Fedòr, Antòn, Katrina, Kraus. Si muovono tutti nella terra di Zard, una terra marginale, situata com’è ai bordi delle autostrade e, in generale, del mondo comunemente abitato dagli esseri umani: la loro peregrinazione è dunque anche un’esplorazione della liminalità, allo stesso modo in cui, per passare ad un altro livello di un testo assai stratificato, la parola di Ida Travi si colloca sul crinale, in verità molto labile, tra oralità e scrittura.

Presenza costante in tutto il libro, infatti, è la neve, che – oltre a neutralizzare, almeno temporaneamente, il possibile epilogo tragico evocato in tutto il libro (“Poi è arrivata la neve / E tutto è ritornato come prima / come prima”, p. 118) – è figurazione del limite tra silenzio e parola. Alba pratalia, se si vuole risalire alle scaturigini della letteratura in volgare (è, in fondo, veronese, come l’autrice, l’Indovinello cui si fa riferimento), attendono la semina della parola scritta; per quanto riguarda invece la parola detta, o performata, quest’ultima si trova a confrontarsi con l’effetto acustico ovattato che è associato, come da cliché anche poetico, alla neve (e che potrebbe essere in realtà traslato verso il chiacchiericcio, se non anche “rumore bianco”, della comunicazione quotidiana e telematica).

Un ricorso alla parola che sembra da intendere in senso più dialogico e trasformativo che non di ritorno alle origini, come sottolineato in alcune letture critiche, o in senso salvifico. Certo, una delle due citazioni in esergo al libro – “Finché non saprai cos’è un bambino, non saprai cos’è un fantasma né perciò un sapere”, da La carte postale di Jacques Derrida – induce a pensare che animale e bambino siano due figurazioni della stessa ricerca di un originario contatto con la terra e, insieme, con la parola. Il fantasma, tuttavia, continua ad inquietare, invece di dare spiegazioni consolatorie, e pare quindi più convincente questo passaggio della recensione pubblicata qualche tempo fa sul manifesto, firmata da Chiara Zamboni: “Il testo indica una via: nel nostro presente povero di immaginazione politica gli animali offrono a noi umani – se sapremo interpretare – le tracce di una forza visionaria che non troviamo più in noi stessi né leggiamo nella storia”.

Immaginazione che, nella poesia di Ida Travi, non si risolve soltanto nell’architettura narrativa di una saga poetica, ma anche nel piacere della nominazione delle singole scelte lessicali. Tasàr è qui esempio principe: oltre ai rimandi all’asino Balthazar e insieme al procedimento au hasard, evoca anche i luoghi nei quali è ambientata la saga (la terra di Zard); è formata dall’unione di Tà (titolo del primo volume della saga) e Sàr (“intelligente”, secondo la definizione esplicitata più volte nei singoli testi); consuona, infine, fortemente con la parola ebraica dabar, che designa sia “la parola” che “l’azione”, sia la cosa che la voce.

Tasàr, dunque, come “parola e azione intelligente”?

Sì, ma non solo. Allo stesso modo in cui si impone la consonanza tra Tasàr e dabar, anche un’altra (possibile) mislettura si fa largo. Che Tasàr/Balthazar sia l’asino di Godard, e non soltanto di Bresson? In fondo, l’altra citazione in esergo al libro è tratta da un’intervista a Bresson, apparsa nel 1966 sui Cahiers du cinéma e firmata proprio da Jean-Luc Godard insieme a Michel Delahaye. “Non realizzo né metto in scena un bel niente: il cinema è una scrittura, non è uno spettacolo”, è la dichiarazione di Bresson, e consuona tanto con la poesia di Ida Travi (che non arriva mai a costruire un epos della marginalità, concentrandosi piuttosto sulla parola-dabar) quanto con una certa filmografia godardiana.

Si aggiunga anche – a margine, poiché non si può stabilire se l’autrice sia a conoscenza o men di questo aneddoto in fondo minuto, né se vi faccia davvero riferimento – che un asino era presente anche in un film di poco precedente di Godard, Le Mépris (1963). Si tratta di una scena poi inspiegabilmente tagliata nella versione italiana, con la perdita del gioco di parole tra Dean Martin, presenza ossessiva nel film, e l’asino Martin – riferimento, dunque, che andrebbe a sostanziare ulteriormente l’affermazione di Bresson, rientrando in una medesima fuga dal cinema, o dalla poesia, anche performata, come spettacolarizzazione prettamente estetizzante (o d’intrattenimento, nel caso di Dean Martin).

Ancora, e più significativamente, tutto il libro di Ida Travi può essere letto alla luce di un breve testo precedente di Ida Travi, intitolato, per l’appunto, Perché Godard?. Ispirato a Vivre sa vie (1962), il breve testo pone alcuni interrogativi – “Perché -dico io- perché nessuno scrive quando è davvero piccolo?”, oppure “Perché le immagini? E perché la poesia?”, o ancora: “Perché mi guardi così? dico io, perché se abbiamo tutto siamo così poveri, e perché non troviamo la parola?” – alle quali la lettura di Tasàr. Animale sotto la neve può probabilmente dare nuove risposte. Senza per questo rispondere propriamente, com’è proprio, questo, di ogni arte, dalla poesia al cinema.

 

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