“Il rigo tra i rami del sambuco” di Emilia Barbato – recensione di Donato Di Poce

Il rigo tra i rami del sambuco – di Emilia Barbato

di Donato Di Poce 

Il rigo tra i rami del sambuco, ed. Pietre Vive, settembre 2018

Il rigo tra i rami del sambuco di Emilia Barbato (ed. Pietre Vive, settembre 2018, illustrazioni Nadiya Yamnych.), s’ impone subito per la bellezza del titolo e del manufatto, con bellissime illustrazioni di Nadiya Yamnych. Un libretto aureo e leggero insieme, denso di poesia, dolore, compassione. Una preghiera etica e sociale, che si srotola tra enigmi esistenziali e il ritmo sincopato del quotidiano, che inesorabile come il battito cardiaco dell’universo dispensa vita e morte, abbandoni e clamori, dolore e rinascita.

E’ da questi grumi di coscienza e conoscenza intima che la poetessa svela i sui segreti archetipici e simbolici, la verginità purpurea del linguaggio e l’inchiostro nero della vita.

Il Sambuco e la sua anima bianca(per chi ha visto un sambuco spezzato), funge da matrice di riflessione  e di vita e da forza archetipica e nel contempo naturale e ambivalente(come ha bene evidenziato nella postfazione il poeta e critico Ivan Fedeli).

La poetessa di grande respiro lirico e naturalistico, ma con uno sguardo civile,osmotico, divergente ed empatico, ce lo svela emblematicamente in questa lirica centrale:

Il sambuco stormisce
con una voce dimenticata
di campagna un oscillare
di foglie lieve per l’oscura
la rigogliosa e la vergine,
qualcuno strilla parole remote
di una bellezza senza fiducia.
La terra brucia
e genera e si accuccia,
un piccolo animale che scava
che ti somiglia,
una tazza che si sbreccia.

Nella sua amata e martoriata Terra dei fuochi, “qualcuno strilla parole remote/di una bellezza senza fiducia…” e  la poetessa insegue la sua danza delle parole in cerca di un senso, di un corso di vita nuova , un risveglio che si alzi come una lama di luce da una tazza rotta, come un corpo sbriciolato e attorcigliato dal dolore che non si può aggiustare ma che continua a germogliare clamori di vita nuova, rinascite clandestine di voci dimenticate, colpi di vento tra le foglie.

Le vite dei poeti del resto sono fatte di sogni e visioni dell’invisibile, di coscienza del male e di solidarietà, sempre in fuga sulle tracce della bellezza, ma sono fatte anche di esodi, transumanze, dolori, abbandoni, interrogazioni tra buio, silenzio e squarci di chiarezze a cui il dolore apre clamorosamente varchi.

“…il buio entra in forma di punteruoli
che aprono in silenzio –
Con la maniera affannata dei pomeriggi
inseguo raggi, i favori del cielo,
il corpo di una sconosciuta che mi precede
e ondeggia sulla strada come un metronomo,
fuori tutto si direbbe procedere
con l’entusiasmo dell’estate
ma dentro sono ferma, stretta
a una nuova chiarezza,

…”        


La poetica dei versi, è implicita nei versi stessi, si nasconde tra un punto interrogativo e le parole storte che crescono dentro i corpi malati della madre e della madre terra, osso dopo osso, tra sonde che non osiamo toccare e il gelo di una stanza d’ospedale, e la speranza di voler e poter scrivere con amore, l’urlo muto del dolore che rimane inespresso, come un verso imploso dentro.

Le 31 liriche senza titolo, sono 31 balsami curativi, 31 gocce distillate con cura tra le righe del sambuco che scrivono una storia d’amore immenso e fragile, una storia di dolore incommensurabile, e la raccolta diventa un poemetto cosmico e universale del dolore di tutti, dove una “pipetta” gentile con il sorriso rivolto al futuro ci dice: “ Sommo lo sguardo/nuvole di ciliegi/piovono piano”.

Sei bellissimi disegni accompagnano questa traversata esperienzale che fortifica il cuore dell’umanità, rendendola più umana, gentile e solidale, nella certezza che “Siamo solo polvere innamorata che cammina”, Nadiya Yamnych, rappresenta volti e lacrime, ombre e scolature di dolore, occhi di ciliegio che guardano il rigo tra i rami del sambuco.

Milano, 6/12/2018

                                                                       

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